VENEZIA – E’ un piccolo film di Orizzonti la sorpresa di questa 72/a Mostra. Si intitola Pecore in erba e ha fatto scrosciare di risate il Palazzo del Cinema con il suo umorismo intelligente applicato al genere, poco frequentato, del mockumentary. Nella sua opera prima, infatti, il trentunenne Alberto Caviglia sceglie il paradosso e la satira per denunciare la persistenza, anche in Italia, dell’antisemitismo attraverso il fantomatico personaggio di Leonardo Zuliani, comunicatore, fumettista, scrittore e soprattutto attivista per i diritti civili, laddove in questo caso i diritti civili riguardano la libertà di manifestare il proprio antisemitismo e sfuggire all’oppressione discriminante dell’”antisemifobia”. La sua storia è raccontate tramite uno speciale tv realizzato a sei mesi dalla sua morte, in cui Zuliani viene ricordato con interviste (finte) a personaggi (veri, e nel ruolo di loro stessi) del calibro di Carlo Freccero, Ferruccio De Bortoli, Elio (delle Storie Tese), Gipi e Fabio Fazio. A lui, una vera leggenda, viene dedicato persino un melodrammatico biopic interpretato da Vinicio Marchioni e Carolina Crescentini nei panni della fidanzata. Pecore in erba, che mostra le “gesta” di Zuliani nella sua lotta contro gli ebrei e per il diritto di odiarli, sarà in sala con Bolero il 24 settembre.
Caviglia, partiamo dalla fine: si aspettava che il suo film diventasse il caso del festival e riscuotesse tali consensi?
Non mi aspettavo nemmeno di riuscire a farlo così come l’ho fatto, cioè come lo avevo in mente, riuscendo a coinvolgere i personaggi famosi che gli hanno dato forza, né di essere selezionato a Venezia, né le reazioni entusiastiche dopo le proiezione, mi sembra tutto incredibile.
Sulla carta poteva essere molto difficile: il mockumentary è poco frequentato, e forse poco capito, in Italia, e poi il tema è delicato. Come c’è riuscito?
Con un lavoro immenso, soprattutto di contatti per trovare i “testimoni” disposti a farsi fare le finte interviste. Quando presentavo il progetto ai produttori, in realtà, dicendo che avrei parlato di antisemitismo attraverso la satira, si accendeva subito qualcosa. Poi molte cose sono accadute in corso d’opera.
In un anno difficile per la satira, di cosa aveva più paura montando questo film?
Banalmente di affrontare un tema così tragico, che tocca la sensibilità profonda di tantissime persone, con quel registro. Poi mi sono convinto che era la strada giusta, perché era un terreno che mi permetteva di andare in fondo al tema, senza superficialità.
E’, naturalmente, un modo per denunciare il fatto che l’antisemitismo continua a essere diffuso.
Eccome. Ma il mio approccio non vuole giudicare, quanto piuttosto far riflettere sul fenomeno e sull’ipocrisia con cui si guardano certe cose.
Oggi al Lido c’era il dibattito di 8 e ½ sul “diritto di cittadinanza” della commedia nei festival. Lei che ne ha portata una, che ne pensa? Penso che ci sono commedie molto diverse tra loro e che è un genere che merita dignità. Io poi fatico a considerare il mio film una commedia, perché dietro la risata c’è qualcosa di terribile.
Dopo questo exploit, che succederà?
Ho già pronta una sceneggiatura da sviluppare. Mi riprenderò da questa avventura e spero di mettere mano a quella, una commedia surreale.
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