Al Pacino è decisamente l’uomo del giorno oggi al Lido, e gli tocca un superlavoro di comunicazione. Come se non bastasse quello che ha già fatto nei due film in questione, costruiti praticamente quasi esclusivamente sulla sua (sempre eccelsa) prova d’attore. In particolare The Humbling condivide alcuni temi con il film d’apertura del Festival, Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu. “In realtà – dice l’attore – è ispirato a un romanzo di Philip Roth, che abbiamo leggermente modificato, come spesso avviene”.
Partiamo da The Humbling, progetto a basso budget. Come ha lavorato con Levinson?
Abbiamo usato quello che si chiama ‘Gorilla filmmaking’, ovvero realizzazione veloce, non più di venti giorni e anche piuttosto frammentati. Eravamo entrambi impegnati su altri fronti per cui era un continuo ‘ci vediamo oggi, poi il 6, poi tra due settimane’. Ma è stato stimolante proprio per questo, perché abbiamo avuto il tempo di preparare il film molto bene prima di girare, per quasi due anni, per cui alla fine non ti serve troppo tempo per le riprese. Eravamo tutti piuttosto rilassati.
Ce lo racconti lei, il suo personaggio…
Penso che abbia delle similitudini con tutti noi. Sente di aver perso delle opportunità nella vita, sta invecchiando, il suo talento e i suoi sentimenti nei confronti del lavoro di attore, che ha tanto amato, stanno svanendo. Inizia a diventare confuso, scivola nel panico e nella depressione. Perde la memoria che per gli attori è fondamentale. Ma è una cosa che capita spesso. Ripetere sempre le stesse cose può diventare stancante, dopo tre giorni di recite di Shakespeare si accusa un certo senso di logoramento. Tutti portiamo il peso dei nostri errori, i drammi, le droghe, il successo e l’insuccesso. Ma per un attore è più complicato perché lo si immagina sempre brillante, fa parte di noi e si collega a noi perché parla in nostra rappresentanza, recita quello che noi vogliamo. Ma il film è anche umoristico. Come si vede nella prima scena, commedia e tragedia, sono sempre collegate. Lui sente di star perdendo tutto questo e vuole abbandonare le scene…
E lei ci pensa mai, ad abbandonare?
Anche stamattina, se è per questo. Poi vengo qui, vedo il pubblico che è qui per me e dico: forse non è il caso, continuiamo ancora un po’. Mi ritengo molto fortunato, ho avuto la mia storia, i miei problemi e ho trovato qualcosa che amo fare davvero. L’aereo della mia carriera non sta ancora atterrando.
Nel film il suo personaggio si rifiuta di girare spot pubblicitari che ritiene umilianti. Lei invece li ha fatti…
Se sono buoni, perché no? Il problema è quando ti ritrovi da solo e con dei conti salati da pagare. Lui brama l’anonimato, è una cosa che vorrebbero molti attori sul viale del tramonto, ma in un certo senso non possono permetterselo. Più sei famoso, più l’anonimato acquisisce valore. A volte per fare film a cui tieni realmente è necessario alternare anche con delle puntate commerciali.
Però lei, di blockbuster ne ha fatti pochi. O almeno, meno di molti suoi colleghi…
Non funziono in quel genere, forse perché mi impegno fin troppo nello studio del personaggio, mi ci vuole tempo. E cerco registi con cui entrare in sintonia assoluta, come Levinson. Devi fare qualcosa che desideri realmente. Ecco, è anche il problema di The Humbling: il protagonista perde il desiderio di recitare, l’appetito per l’atto della recitazione. Mi ricordo Gene Hackman sul set di Scapegoat che andava in giro con un cappotto sotto un sole caldissimo. Sembrava un pazzo, eppure è questo, che significa, amare la recitazione. Comunque i blockbuster mi piacciono, magari non andrei a vedere Guardiani della Galassia mia sponte ma ci sono stato coi miei figli ed è un film di grande inventiva e di grande intrattenimento. Poi lo sapete, ho lavorato con Coppola, ho fatto Dick Tracy. Con Hollywood ho sempre mantenuto rapporti più professionali che amichevoli. Ma guarda tu, proprio io devo finire a parlare di Hollywood?
Allora ci parli di altro. Non so, dell’Actors Studio…
Fiorisce sempre di più, ne abbiamo uno per ogni costa degli Stati Uniti, ha supportato noi attori da Elia Kazan in poi in ogni modo possibile, tutto gratuitamente. A 25 anni non avevo un soldo, erano loro a darmi le scarpe, tutti sanno che gli attori ne hanno bisogno. E poi la James Dean Foundation, che offriva ospitalità. Non avrei potuto pagare nemmeno un affitto di 50 dollari. Non posso parlare che bene di tutto ciò. Poi è chiaro che le cose si evolvono con l’evolversi dell’economia.
Lei è mai stato depresso?
Se lo sono, non me ne accorgo, e questa è una fortuna. Certo a volte si è tristi ma depressione è una parola così sinistra… certo, ora che me lo dice magari la prossima volta che mi sentirò triste crederò di essere depresso.
Passiamo a Manglehorn…
Lì interpreto un fabbro e il lavoro è stato soprattutto cercare di capire che passato potesse avere un uomo che fa quel mestiere e segue quello stile di vita.
Un personaggio rude ma con grandi momenti di tenerezza…
Non l’ho cercata artatamente ma se è venuta fuori la tenerezza ben venga. Evidentemente era nella natura del personaggio. David moi ha dato le giuste coordinate. Abbiamo dato al protagonista un gatto da accudire perché aiutava a mettere in luce questo aspetto. E’ un uomo che non riesce a dimenticare il passato e si sforza di entrarci costantemente in connessione.
Anche lui è depresso?
Non userei un tono così pesante. Semplicemente lascia un po’ andare le cose e si chiude un po’ nella sua vita. E man mano nel corso del film acquisisce consapevolezza di sé. Lei direbbe che Michael Corleone è depresso?
In una scena in particolare sembrano averla colta di sorpresa. Quando un tizio inaspettatamente entra in banca e comincia a cantare…
E’ vero. Non avevo idea di quello che stessi facendo. L’ho visto e ho pensato: ‘dove diavolo l’hanno pescato?’. Ero molto commosso. Forse è il modo migliore per recitare.
"Una pellicola schietta e a tratti brutale - si legge nella motivazione - che proietta lo spettatore in un dramma spesso ignorato: quello dei bambini soldato, derubati della propria infanzia e umanità"
"Non è assolutamente un mio pensiero che non ci si possa permettere in Italia due grandi Festival Internazionali come quelli di Venezia e di Roma. Anzi credo proprio che la moltiplicazione porti a un arricchimento. Ma è chiaro che una riflessione sulla valorizzazione e sulla diversa caratterizzazione degli appuntamenti cinematografici internazionali in Italia sia doverosa. È necessario fare sistema ed esprimere quali sono le necessità di settore al fine di valorizzare il cinema a livello internazionale"
“Non possiamo permetterci di far morire Venezia. E mi chiedo se possiamo davvero permetterci due grandi festival internazionali in Italia. Non ce l’ho con il Festival di Roma, a cui auguro ogni bene, ma una riflessione è d’obbligo”. Francesca Cima lancia la provocazione. L’occasione è il tradizionale dibattito organizzato dal Sncci alla Casa del Cinema. A metà strada tra la 71° Mostra, che si è conclusa da poche settimane, e il 9° Festival di Roma, che proprio lunedì prossimo annuncerà il suo programma all'Auditorium, gli addetti ai lavori lasciano trapelare un certo pessimismo. Stemperato solo dalla indubbia soddisfazione degli autori, da Francesco Munzi e Saverio Costanzo a Ivano De Matteo, che al Lido hanno trovato un ottimo trampolino
Una precisazione di Francesca Cima
I due registi tra i protagonisti della 71a Mostra che prenderanno parte al dibattito organizzato dai critici alla Casa del Cinema il 25 settembre