Agnese Nano arriverà al Giffoni Film Festival il 23 luglio per accompagnare “Fate” come noi, film in due episodi di Francesco Apolloni (leggi l’intervista).
La pellicola segna il suo ritorno sul grande schermo dopo qualche anno di assenza e il suo destino d’attrice torna ad intrecciarsi con quello di Pupella Maggio, la regina del teatro napoletano scomparsa nel dicembre del 1999.
Nel 1988 si erano incontrate sul set di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, il film la lanciò dopo l’esordio con Domani accadrà di Daniele Luchetti.
Nel frattempo ha recitato per registi come Memè Perlini (Il ventre di Maria, 1992), e Margarethe von Trotta (Il lungo silenzio, 1993) ed ha sedotto il pubblico televisivo con le fiction Edera (1992) e Incantesimo (1998): “C’è stata una sollevazione popolare quando il personaggio di Barbara Nardi è scomparso dalla serie” racconta.
Poi Damiano Damiani l’ha voluta per Assassini dei giorni di festa (2002), commedia con l’attrice di Almodovar Carmen Maura.
Ma ora l’attrice 36enne annuncia: “In questo momento la recitazione non mi basta più. Così, oltre ad aver scritto un cortometraggio, lavoro con un gruppo di amiche su uno spettacolo teatrale che mi impegna molto”.
L’incontro con Apolloni?
E’ avvenuto per caso. Il suo sceneggiatore gli ha fatto il mio nome per il personaggio di Giordana, la protagonista del secondo episodio. Ma non è stato facile convincerlo: ho fatto un provino durato 5 giorni in cui ho recitato gran parte delle scene del film. Forse era influenzato dal mio ruolo in Incantesimo, quello di una donna solida, l’opposto di Giordana.
Chi è Giordana?
Una donna della borghesia romana con una figlia e un marito di successo. Ma il giorno di Natale scopre che lui la tradisce e il suo castello di carte crolla. La risolleva l’incontro con un ragazzo molto distante da lei per età ed estrazione sociale. Si studiano a lungo, poi nasce un rapporto di scambio umano essenziale, ridotto all’osso.
Nel primo episodio del film la protagonista è Pupella Maggio. Che ricordo hai di lei?
Recitare di nuovo in un film in cui c’è anche lei mi fa davvero piacere, anche se non ci siamo riviste sul set perché il suo episodio è stato girato prima del mio. Ai tempi del film di Tornatore avevo poco più di vent’anni e la guardavo con timidezza: lei era un pezzo di storia della recitazione che, sotto l’apparenza di vecchiettina esile e fragile, nascondeva un’enorme forza e saggezza. Sul set c’erano molte donne e lei era come una madre rassicurante per tutte noi.
Negli anni Novanta hai fatto più fiction che cinema. Perché?
Perché la fiction offre molti più ruoli femminili. Ma per me non fa una grande differenza lavorare per la televisione, il cinema o il teatro. Certo, girare fiction è molto più faticoso, i ritmi sono molto più intensi e serve una grande resistenza fisica.
Hai appena finito di girare un cortometraggio. Di che si tratta?
Si intitola Prima classe ed è uno dei corti digitali del concorso Cinecittà Digital 2001. I registi sono Alex Oriani e Alessandro Bignami. Interpreto una donna, ancora una volta molto borghese, che crede di esser stata tradita dal marito. Una mattina esce di casa, va dalla parrucchiera e dall’estetista. Poi si suicida. Mi ha colpito la totale freddezza con cui compie questo gesto estremo, forse simile a quella delle donne kamikaze. Sono molto interessata ai corti: la loro compattezza richiede una recitazione fatta di pochi gesti ma chiari.
Come influisce il digitale sulla recitazione?
L’avevo già sperimentato ai tempi di Edera, la prima fiction girata con le nuove tecnologie. Cambiano i tempi della recitazione: una scena può durare anche 7/8 minuti. È molto più simile al teatro che al cinema. Poi hai la consapevolezza che tutto si può rifare perché i costi sono inferiori alla pellicola e il girato può essere modificato in postproduzione.
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