E’ stato la rivelazione dell’ultima Mostra di Venezia, il film che secondo molti avrebbe meritato il Leone d’oro: ora Cous cous arriva nelle nostre sale l’11 gennaio con Lucky Red. Il suo autore, il franco-tunisino Abdellatif Kechiche, si è dovuto accontentare, con un certo disappunto, del Premio Speciale della Giuria, che ha definito sul palco “modesto” benché rafforzato dal Premio Mastroianni alla rivelazione Hafsia Herzi, la ragazza che chiude il film con una lunga scena in cui balla la danza del ventre e cerca di salvare il progetto del suo amico Slimane, l’operaio “dismesso” che sogna il riscatto sociale come un personaggio di Verga. E che, proprio come nei “Malavoglia”, si scontra con la sfortuna che sembra perseguitare tutti i poveri che tentano di alzare la testa. Kechiche, che ha un passato da attore, è al suo terzo film: con il primo, Tutta colpa di Voltaire, si era fatto notare dai critici, con il secondo, La schivata, si conquistò diversi César. L’abbiamo incontrato a Venezia, alla vigilia della premiazione.
Lei ha un metodo molto rigoroso con gli attori, un metodo che contraddice l’impressione che il film sia una specie di documentario con la vita in diretta e in tempo reale.
Ho scelto di lavorare soprattutto con non attori perché hanno più tempo e meno problemi ad accettare un impegno a lungo termine: in questo caso è passato addirittura un anno tra la preparazione e le riprese. Una volta scelti hanno ripetuto molto le scene e hanno lavorato anche su un testo di Marivaux. La sensazione di facilità, l’energia e la generosità vengono proprio dal loro conoscersi e fidarsi. Abbiamo avuto tutto il tempo di creare una vera famiglia, quella che appare nella finzione.
Ha messo al centro della narrazione due “stereotipi” della cultura maghrebina vista dall’esterno, come il cous cous e la danza del ventre.
La danza del ventre, da un punto di vista occidentale, è qualcosa di kitsch, una forma di seduzione da cabaret. Invece per noi è qualcosa di sacro, un’arte vera e propria. E io ho cercato proprio di renderla nella sua bellezza e nel suo mistero. Un ventre che vibra, un corpo che si muove, è qualcosa di misterioso, che non ha nulla di volgare e non è neppure sensuale. Il viso resta immobile e il corpo vibra. Stesso discorso per il cous cous, spesso considerato in termini spregiativi, mentre nel film ho voluto dare spazio al cerimoniale e alla tradizione che lo accompagna.
Due arti femminili in un contesto in cui vediamo uomini impotenti o fedifraghi, e donne capaci di prendere in mano la situazione con molto vigore: è quasi una società matriarcale.
Matriarcato è una bella espressione che non mi fa paura. La famiglia araba è fondata sulla madre. Nell’immaginario occidentale la donna araba è una donna sottomessa, silenziosa, soggetta al padre e al marito, ma questa non è un’immagine reale, almeno non nel Maghreb.
Un altro tema molto forte è quello del riscatto sociale e dell’integrazione che sembra quasi impossibile.
È sempre difficile infrangere le barriere sociali e non solo per i francesi di origine maghrebina. Nella società esistono frontiere invisibili: il quartiere, la cultura, il modo di parlare. Per chi proviene da un ambiente operaio è difficile fare il salto e si tratta di un problema di natura culturale. Fare soldi con il commercio è lecito, ma il mondo della cultura resta chiuso. Per chi ha origini straniere le cose sono ancor più complesse: è difficile infatti dire dove sta il limite tra il rigetto altrui e l’incapacità di adattarsi perché non si conosce il codice dell’altro.
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