CANNES – Aki (Rin Takanashi) è una giovane studentessa di Tokyo che si prostituisce per pagarsi gli studi. Un anziano signore (Tadashi Okuno) richiede la sua presenza. Quando s’incontrano, lui ha l’impressione di conoscerla, la accoglie in casa. Lei gli offre il suo corpo. Ma la relazione che si dispiega tra i due nell’arco di 24 ore non avrà niente a che vedere con le circostanze del loro incontro. Due anni dopo Copia conforme, valso alla protagonista Juliette Binoche il premio per la miglior interpretazione femminile, il regista iraniano Abbas Kiarostami torna sulla Croisette con Like someone in love, in concorso. Il film, come il precedente che si ambientava in Italia, rappresenta per l’autore un altro spostamento geografico, stavolta in Giappone. E’ una coproduzione franco-giapponese, una delle prime, in cui il produttore d’oltralpe Marin Karmitz, collezionista d’arte, credeva tanto da arrivare a vendere uno dei sui più preziosi pezzi pur di poterlo realizzare. Ce ne parla il regista.
Dopo l’Italia, il Giappone. E’ solo uno spostamento geografico o rappresenta anche una svolta psicologica?
Potete comprendere i motivi per cui negli ultimi anni ho dovuto lavorare fuori dall’Iran. E’ un’opportunità che il cinema offre e l’ho colta volentieri. A tutte le difficoltà si trovano soluzioni, e a volte si arriva a risultati inattesi. Ho detto alla mia troupe: facciamo una gita. I giapponesi sono forse il popolo più lontano sia da me che dal pubblico europeo. Ma per me è un’occasione di dimostrare l’universalità della condizione umana. Se ci riesco avremo la prova che gli uomini si assomigliano tutti al di là delle loro differenze culturali.
Qual è il suo rapporto con il cinema giapponese?
Quando ho cominciato a interessarmi di cinema ho visto molti film di Yasujiro Ozu. La cineteca di Teheran gli aveva dedicato una retrospettiva. Al tempo non pensavo di diventare un regista, per cui non riuscivo a rendermi conto di quanto in realtà mi stesse influenzando. L’ho capito anni dopo, rivedendoli. Poi, quando ho avuto la conferma che avrei realizzato Like someone in love, mi sono procurato dei DVD di cinema giapponese contemporaneo, soprattutto per trovare gli attori. Ma ho dovuto smettere presto di guardarli, perché mi scoraggiavano. C’era qualcosa che non riuscivo a cogliere, e aveva a che fare con l’anima e le emozioni dei giapponesi. Ci ho trovato però molte influenze del cinema hollywoodiano.
Il titolo del film si rifà a un famoso standard jazz…
La mia generazione è cresciuta sotto l’egida del jazz. E’ una conferma di ciò che dicevo prima. Ci sono degli aspetti che accumunano tutti gli uomini. Sia Teheran che in Giappone, siamo cresciuti ascoltando Ella Fitzgerald.
C’è qualcosa di specificamente iraniano, secondo lei, nel film?
Non saprei rispondere, con precisione, perché non ho idea di cosa sia l”iranità’. Posso dirle che quando si fa un film che si vuole proporre a un pubblico internazionale, bisogna pensarsi internazionali. Bisogna capire cosa è il caso di inserire e cosa no. Non voglio inseguire elementi che il pubblico non iraniano faticherebbe a comprendere e che probabilmente faticherei a comprendere io stesso. Evito tutto quello che ci separa dalle altre culture, magari attaccandoci alla nostra nazionalità. La materia base del mio lavoro sono le gioie e i dolori degli uomini, su scala universale. Evito specificità anche quando faccio film squisitamente iraniani. Le reazioni umane devono essere comprensibili a tutti.
Ad esempio?
Ad esempio, io sono iraniano, Okono è giapponese, ma ci capivamo a meraviglia. Nello script c’era una scena in cui lui cerca di curare una ferita sul volto della ragazza. E per far questo doveva prenderle il viso tra le mani. Mi ha spiegato che lui, da giapponese tradizionalista, non si sarebbe mai permesso di fare una cosa del genere. Ho rispettato la sua visione. Questi dettagli sono molto importanti per il film. Non le chiedo se il film le è piaciuto. Le chiedo se lo ha capito. Perché, se non arrivo a trovare un denominatore comune tra me, iraniano, i miei protagonisti giapponesi e il pubblico europeo vuol dire che ho fallito, che non aveva senso fare questo film.
Certamente, uno degli aspetti più misteriosi è il finale. Senza rivelare troppo, ci darebbe una chiave di lettura?
Posso raccontarle come l’ho concepito. Mentre scrivo, naturalmente visualizzo ciò che scrivo. E dopo quella scena, ho immediatamente immaginato il cartello con la parola ‘Fine’. Anche i miei produttori mi hanno detto: ‘ma la sceneggiatura non è conclusa!’. Pensavo di trovare un finale in un momento successivo ma, beh, non è mai arrivato. Anzi, mi sono reso conto che la storia non aveva nemmeno un inizio. E mi sono reso conto che, dopotutto, tutte le storie non hanno né un inizio né una fine. Arriviamo già ‘in medias res’. Credo che il pubblico sia abbastanza intelligente da poter immaginare da sé cosa avviene prima e cosa avviene dopo.
Molte scene sia ambientano in un’automobile, un’ambiente tipico dei suoi film…
Sì, trovo che ambientare scene di dialogo in macchina abbia molti vantaggi. Il primo è che il dialogo produce sempre una risposta. Nessuno può fuggire, con le cinture di sicurezza allacciate. Si arriva sempre al punto, è una garanzia. Mi ha permesso di lasciar trasparire il senso di sicurezza che Aki prova quando è accanto a Watanabe, il personaggio di Okono. L’unico problema, è che Okono non sa guidare.
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