CANNES – Se si volesse immaginare un film il più possibile diverso dal Mad Max: Fury Road con cui George Miller è passato da Cannes nel 2015, prima di aggiudicarsi il plauso internazionale e ben sei Oscar, probabilmente assomiglierebbe a quello che ha presentato in questa 75esima edizione, ancora una volta fuori concorso, ben 7 anni dopo. Three Thousand Years of Longing è un’opera che fa del dialogo e dell’introspezione la sua chiave di volta (una vera e propria “conversazione da camera”), laddove Fury Road lavorava sull’azione e l’epicità in infinite strade desertiche. Il primo racconta una fiaba che ripercorre varie tappe dell’umanità fino ad arrivare al presente, ricreando magie ed esseri sovrannaturali con ampio uso di CGI, mentre il secondo è ambientato in un futuro tanto terribile quanto crudelmente realistico, che viene realizzato il più possibile con stunt ed effetti dal vivo. Il nuovo film è l’adattamento del racconto breve The Djinn in the Nightingale’s Eye di A.S. Byatt, quando invece Fury Road è il quinto capitolo di una saga originale.
Ma questa novità non sarà di certo una grande delusione per chi conosce la versatile carriera di Miller che è passato senza colpo ferire dai mortiferi deserti di Mad Max alle lande ghiacciate piene di pinguini ballerini in Happy Feet. A rendere il tutto, ancora una volta, straordinariamente coerente è la visione del regista settantasettenne, che rimane perfettamente lucida e inquadrata in un’estetica che si mette al servizio dello spirito del film.
Tilda Swinton interpreta Alithea, un’esperta di narratologia che vive la sua vita pacatamente soddisfatta, non cerca amore, non desidera niente più che le sue storie e i suoi libri. Un equilibrio innaturale che verrà rotto improvvisamente durante un viaggio a Istanbul dove libererà un genio millenario (Djinn), che le proporrà di esaudire tre desideri in cambio della sua libertà. Il gigantesco Djinn acquisirà presto una forma umana decisamente più appropriata – quella di Idris Elba – e dovrà presto scontrarsi con la poca voglia di Alithea di acconsentire a esaudire il suo “desiderio del cuore”. La donna, infatti, sembra essere priva dell’avidità e dell’ingordigia a cui il genio è abituato e, da esperta di storie, sa i rischi che corre nel cedere alle lusinghe di una magia tanto potente.
Il genio, dunque, racconta la sua tragica vicenda iniziata in un tempo fuori dalla Storia, tremila anni prima. Lo stesso Miller riassume le tappe in cui si scandice questo racconto, nonché il film stesso: “tutto inizia con l’amore non corrisposto per la regina di Saba. Poi, Djinn cerca di guidare una schiava attraverso gli intrighi della corte di Solimano il Magnifico. Infine, nel 1850, trova la brillante Zefir, che ha un profondo desiderio di comprendere la natura dell’universo, ma è rinchiusa come un uccello nella grande dimora di un ricco mercante. Djinn si innamora profondamente di lei, ma qualcosa va terribilmente storto”.
Fondamentale per la riuscita del film è il ruolo di Idris Elba che, come lui stesso afferma, ha “realizzato due film in uno” e ha chiesto specificatamente di girare prima gli eventi passati e poi quelli presenti, in modo tale da poter raccontare qualcosa che ha veramente vissuto, seppure nella finzione cinematografica. “Quando un personaggio ha così tanto spazio all’interno di un film, – aggiunge- vuoi che sia in grado di connettersi con il pubblico. Volevamo farlo in maniera autentica, senza nutrire gli spettatori di figure retoriche già viste. Volevamo che sembrasse più umano possibile, abbiamo lavorato sul suo modo di essere, sul suo accento e sul suo modo di vestire. Cosa c’è di più umano di un accappatoio?”.
Three Thousand Years of Longing ci appare dunque come una fiaba alla Mille e una notte, un contenitore di storie che ci porta a sviscerare il concetto di desiderio, inteso come la vera forza pulsante che dà senso alla vita. “Alithea è una specialista nell’essere un’osservatrice – afferma Tilda Swinton – ascolta, legge, comprende, scrive della vita di altre persone, delle loro storie e delle loro fantasie, ma non è realmente una partecipante attiva della vita. Dice che non ha desideri, ma grazie al genio imparerà ad averli. Questa è la sua evoluzione”.
In questo film che Miller definisce “piccolo” (ma che non lo è affatto), la sua grande sensibilità artistica emerge nella valorizzazione dei piccoli gesti. Un piede che trema a manifestare una irrequietezza inconsapevole o una gola che deglutisce davanti all’oggetto del desiderio. Piccoli movimenti che rivediamo nel personaggio di Alithea come in tutte le altre donne presenti nel film. Spie di un’umanità che si nutre delle stesse pulsioni, dell’amore e della conoscenza, ed è sempre uguale a sé stessa, millennio dopo millennio.
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