Sopravvissuto. Combattente. Controverso. Polemico. Cosmopolita. Apolide. Talentuoso. Poliedrico. Genio. Usiamo tutti gli aggettivi che vogliamo per definire Roman Polanski eppure non serviranno a contenerlo. A raccontarlo. Polanski è al di sopra di qualsiasi epiteto, poiché tutti sono incompleti e riduttivi, sia per definire il suo lavoro che la sua vita, entrambe indissolubilmente legate.
Una esistenza lunga 90 anni. Roman Polanski nasce infatti a Parigi il 18 agosto 1933, figlio di emigranti ebrei polacchi, e viene registrato con il nome di Raymond, nell’errata convinzione dei genitori che fosse l’equivalente francese di Roman, un nome polacco comune. Nel 1937 la famiglia si trasferisce a Cracovia e all’età di quattro anni Polanski adotta il nome Roman, anche se la famiglia e gli amici più stretti lo chiamano sempre Romek, il suo diminutivo polacco.
L’infanzia di Polanski è segnata dalla tragedia della separazione dei genitori durante l’Olocausto. Da bambino, fugge dal ghetto di Cracovia dopo che sua madre è stata uccisa nella camera a gas di Auschwitz. E solo alla fine della guerra si riunisce al padre e torna a casa.
Anche se le sue tragedie e i suoi demoni personali hanno talvolta messo in ombra il suo lavoro, non si può negare l’impatto che il maestro Roman Polanski ha avuto sul cinema. Pochissimi registi contemporanei possono vantare una carriera come la sua.
Da studente si dedica al cinema e debutta alla regia con il successo internazionale Il coltello nell’acqua (1962), che ottiene una nomination all’Oscar come miglior film straniero. Il suo seguito, il thriller psicologico Repulsione (1965) raggiunge un successo ancora maggiore. Il terzo film trionfa al festival di Berlino: Cul-de-sac , infatti, vince l’Orso d’oro.
Tre pellicole, tre pezzi da novanta.
Hollywood ovviamente lo nota e gli affida prima la regia di Per favore non mordermi sul collo dove incontra l’attrice Sharon Tate (che sposerà) e l’anno dopo, nonostante l’ultimo flop, Rosemary’s Baby (1968), che gli vale una candidatura per la migliore sceneggiatura non originale e un successo travolgente.
Nell’agosto del 1969, Polanski è in visita in Europa quando la Tate, incinta del loro bambino all’ultimo mese di gravidanza, è uccisa dalla Manson Family, insieme agli ospiti Jay Sebring, Abigail Folger e Wojciech Frykowski, oltre a Steven Parent (Gli omicidi sono stati in parte utilizzati come ispirazione per il film di Quentin Tarantino Once Upon a Time in Hollywood).
Polanski rimane in Europa dopo gli omicidi, dirigendo l’adattamento di Shakespeare Macbeth (1971), che traccia paralleli inequivocabili con gli efferati crimini che hanno sconvolto la sua vita. Torna a Hollywood per dirigere il cupo e tortuoso neo-noir Chinatown (1974), per il quale ottiene una nomination all’Oscar come miglior regista. Uno dei film cruciali della storia del cinema, un’autentica “bibbia” per gli sceneggiatori di tutte le epoche (tanto che il guru Robert McKee nel suo libro seminale “Story” gli dedica ampio spazio)
Poco dopo, Polanski vive un altro spartiacque della sua esistenza tormentata. È accusato di aver aggredito sessualmente la tredicenne Samantha Geimer, modella, figlia di una conduttrice televisiva, nella villa di Jack Nicholson. Polanski si dichiara non colpevole, accettando poi di patteggiare in cambio di una pena più lieve per rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne, del quale Polanski questa volta si dichiara colpevole.
Il giudice riconosce che non c’era stata violenza sessuale ma il regista aveva approfittato di una minorenne, compiendo un atto sessuale non lecito. Tuttavia, la notizia che il giudice Laurence J. Rittenband non avrebbe accettato l’accordo lo spinge a fuggire in Europa, dove da allora non è mai più uscito.
Nonostante le polemiche, Polanski continua a dirigere film, ottenendo una nomination all’Oscar per Tess (1980), adattamento di un romanzo di Thomas Hardy regalatogli dalla Tate. All’inizio del nuovo millennio arriva Il pianista (2002), un dramma biografico sull’Olocausto che fa riferimento a molte delle sue esperienze personali durante il periodo. Sebbene Martin Scorsese (Gangs of New York) e Rob Marshall (Chicago) fossero i grandi favoriti per l’Oscar, Polanski si aggiudica la statuetta per la miglior regia, poi consegnata in Europa da Harrison Ford. Il prestigiosissimo premio fa il pari con la Palma d’oro ottenuta a Cannes.
Segue un’altra mezza dozzina di film: Oliver Twist , L’uomo nell’ombra, Carnage, Venere in pelliccia, Quello che non so di lei, L’ufficiale e la spia. Fioccano intanto altre accuse di violenza sessuale, che Polanski respinge. Tra pochi mesi vedremo il suo 23° lungometraggio The palace che sarà presentato in anteprima alla prossima Mostra del cinema di Venezia.
È un dramma ambientato alla vigilia del Capodanno 2000 in un albergo di gran lusso situato all’interno di un castello degli inizi del Novecento immerso nelle montagne svizzere. La struttura ricorda un luogo fiabesco completamente ricoperto dalla neve e per la celebrazione del millennio entrante si prepara ad accogliere ospiti ricchi ed eccentrici che si aspettano di trascorrere il veglione più straordinario della loro vita. Ad assicurare queste altissime aspettative ci sono Hansueli (Oliver Masucci), dirigente dell’albergo, e il suo nutrito staff di camerieri, facchini, cuochi e receptionist. Tutto viene curato e preparato nel dettaglio e con minuzia, ogni richiesta e vizio degli illustri ospiti deve essere soddisfatto alla perfezione. Ma l’assurdità e l’imprevedibile degrado che raggiungeranno la festa e i suoi partecipanti, sono fattori del tutto imprevedibili.
E’ sempre difficile fare una lista del best of di un artista del calibro di Polanski, ma potrebbe essere l’occasione per recuperare qualcuna delle sue perle cinematografiche che hanno reso più preziosa la vita di noi spettatori.
Al primo posto quasi per tutti i critici più autorevoli c’è il già citato:
CHINATOWN (1974)
Omaggio e reinvenzione del cinema noir, “Chinatown” è un classico senza tempo che ha superato la prova del tempo come un vero capolavoro del genere.
Il film è ambientato nella Los Angeles degli anni ’30 e segue l’investigatore privato J.J. “Jake” Gittes (Nicholson) che viene assunto per indagare su un caso di adulterio. La fotografia è mozzafiato e ogni inquadratura realizzata con cura per sottolineare l’atmosfera e il tono del film. Faye Dunaway è impressionante nel ruolo dell’enigmatica Evelyn Mulwray, mentre Huston ruba la scena nel ruolo del cattivo Noah Cross. Chinatown è un film che merita più visioni, con la sua trama complessa e i suoi dettagli intricati che rivelano nuovi strati di significato a ogni visione.
ROSEMARY’S BABY (1968)
Dopo essersi affermato come uno dei maggiori talenti europei, Polanski approda a Hollywood per terrorizzare il pubblico americano con questo thriller satanico. Tratto dal romanzo di Ira Levin, Rosemary’s Baby ha come protagonista Mia Farrow nel ruolo di una giovane casalinga che si trasferisce in un appartamento decrepito con il marito attore (John Cassavetes). Quando rimane incinta, gli strani comportamenti del coniuge e degli anziani vicini (Sidney Blackmer e Ruth Gordon, premiati con l’Oscar) la portano a credere che ci siano disegni satanici sul bambino che aspetta. Il successo al botteghino e una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale lanciarono Polanski nello star system mondiale.
IL COLTELLO NELL’ACQUA (1962)
Un esordio da fuoriclasse, quello di Polanski. Un thriller che distilla sudore freddo e che prende una premessa semplice e la usa come mezzo per esplorare la sessualità, la rabbia e la paranoia. Leon Niemczyk e Jolanta Umecka interpretano una coppia di mezza età in viaggio su uno yacht. Durante il viaggio incontrano un giovane e affascinante barca-stoppista (Zygmunt Malanowicz) e lo invitano ad andare al lago con loro. Quando Niemczyk intuisce che la moglie è attratta da Malanowicz, la loro competizione diventa mortale.
A meno di 30 anni Polanski mostra già un’idea di cinema molto chiara: claustrofobia, lotta di classe, orrore psicologico. E solo tre personaggi, che da soli bastano a stringere in un nodo indistricabile lo spettatore dal primo all’ultimo fotogramma.
IL PIANISTA (2002)
Facendo appello ai suoi ricordi di fuga da Cracovia durante l’Olocausto, il regista infonde a questo dramma biografico sulle lotte del pianista Wladyslaw Szpilman (Adrien Brody) durante quel periodo un’autenticità quasi dolorosa da guardare. Tuttavia, nel costruire una storia di sopravvivenza di fronte a una sofferenza insopportabile, riesce a suscitare un coraggio e un’empatia sorprendenti.
MACBETH (1971)
Macbeth è un capolavoro di adattamento shakespeariano, diretto da Polanski lavorando sugli aspetti più cupi e disperati della storia. Jon Finch interpreta in modo ammaliante il ruolo dell’eroe tragico e la sua discesa nella follia. Ricamato di immagini inquietanti e di violenza disturbante, questo non è certo il solito Shakespeare da presentare nelle scuole.
REPULSIONE (1965)
Nel suo debutto in lingua inglese, Polanski ha mantenuto la promessa di “Il coltello nell’acqua” con un altro agghiacciante horror psicologico. Catherine Deneuve è ipnotizzante nel ruolo di Carol, una giovane donna belga malata di sesso che viene lasciata sola in un appartamento di Londra dalla sorella viaggiatrice (Yvonne Furneaux). Mentre si ritira dalla società, diventa chiaro che l’appartamento potrebbe essere infestato. Quando non riesce a distinguere tra ciò che è reale e ciò che è immaginario, inizia rapidamente a perdere la testa.
CUL DE SAC (1966)
Cul-de-sac è un film cupo e contorto che esplora la profondità delle relazioni umane e le dinamiche di potere che spesso entrano in gioco. E’ una delle migliori commedie macabre di Polanski. Lionel Stander interpreta Dickie, un gangster americano che si ritrova bloccato in un castello inglese isolato mentre è in fuga. Entra e trova il solitario George (Donald Pleasence) e la sua bella moglie francese Teresa (Francoise Dorleac, morta in un incidente d’auto poco dopo l’uscita del film). Comincia così un esilarante e orribile gioco di prestigio sessuale e psicologico tra il criminale e la coppia, e Polanski si diletta a stravolgere costantemente le nostre aspettative su ciò che accadrà in seguito.
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