L’angelo biondo sbarca in Corea all’inizio di febbraio del 1954 e un elicottero la porta tra le truppe americane che presidiano la frontiera. Sono passati poco più di sei mesi dalla fine della guerra tra le due Coree, il conflitto più insidioso di tutta la Guerra Fredda. Lei è Marilyn Monroe, in arrivo dal Giappone dove si era rifugiata in luna di miele con Joe Di Maggio; ad aspettarla ci sono 100.000 ragazzi in divisa che hanno fatto anche sette ore di fila sotto la pioggia o al freddo pur di vederla, di vedere dal vero la Bionda Platinata, magari anche solo per strapparle un saluto da lontano.
Nel mito insondabile di Norma Jean questo episodio, in sé breve e apparentemente marginale, segna invece un capitolo cruciale per comprendere la fragilità del mito. Anni dopo, nel libro-confessione My Story”(edito in Italia da Donzelli) così la diva lo ricordava: “È stata la cosa migliore che mi sia mai capitata. Non mi sono mai sentita una stella prima, nel mio cuore. È stato meraviglioso guardare in basso e vedere la folla che mi sorrideva”. La frase chiave è quel “guardare dall’alto in basso”: chi avrebbe potuto immaginare che, tre anni dopo essere salita sul palcoscenico dell’Oscar come presentatrice, due anni dopo aver stregato il mondo dalla copertina di “Life”, un anno dopo il trionfo di Niagara”(scatti di “Playboy” compresi) e la scoperta del suo lato canoro e brillante in Gli uomini preferiscono le bionde, poteva sentire ancora l’emozione inedita del palcoscenico e del pubblico plaudente, giù in basso? Sono proprio le canzoni di quel film, Diamonds Are a Girl’s Best Friend” in cima a tutte, a fare lo spartito dello spettacolo Anything Goes messo su in fretta e furia per la gioia delle truppe.
L’invito arriva a Marilyn mentre è in Giappone e il neo-marito già soffre la sua popolarità (10.000 persone l’attendevano all’aeroporto quando si doveva trattare di un viaggio privato) e non sopportava gli sguardi di altri uomini su di lei. L’attrice accetta l’invito anche nella segreta speranza di andarci con Joe, ma alla fine sarà sollevata dallo sdegnoso rifiuto di lui, rimasto ad allenare una squadra locale di baseball. Finalmente libera e ingenuamente convinta di fare qualcosa di bello per la patria, parte infagottata in un completo camicia-pantalone in verde militare (ma c’è anche un cambio in blu navy) e, appena arrivata al fronte, si fa prestare un giaccone da aviatore per ripararsi dal freddo.
Le foto che immortalano il viaggio la mostrano disinvolta e sorridente, scarponcini ai piedi e passo deciso a fendere la folla, nonostante sia quasi soverchiata da ufficiali e soldati che le fanno da scorta d’onore. Oggi possiamo scorrere come un album in bianco&nero o a colori le istantanee di quelle giornate vissute freneticamente da un posto all’altro, con tendoni improvvisati per accoglierla e un camerino che sembra la versione buffa di Accadde una notte. Ma fatichiamo a cogliere nel suo sguardo l’ombra lunga della nevrosi, l’insicurezza della star che temeva se stessa; anche a ingrandire gli occhi in primo piano troviamo solo la spensieratezza un po’ timida di una scolaretta in gita. Certo, l’attrice ci mette del suo, ma è spontanea quando esclama “Non avevo mai visto tanti uomini insieme, e tutti per me”. A testimonianza dell’evento ci sono brevi filmati di cinegiornali, compresa una Settimana Incom di marzo preziosamente conservata negli archivi dell’Istituto Luce.
Sul palcoscenico, con una arrangiata formazione di cinque musicisti (pianoforte, batteria, chitarra, contrabbasso, sassofono) arriva fasciata in un seducente vestito blu (o bordeaux) tempestato di perline, si atteggia, accompagna le canzoni con pudica gestualità mettendo in mostra forme da sirena e sorrisi complici destinati agli scatti dei fotografi improvvisati e alla folla in delirio. Sono soltanto quattro giorni, ma destinati a rimanere nell’immaginario collettivo.
Tornata a Hollywood, Marilyn ricucirà i rapporti con la 20th Century Fox, fisserà l’icona della Diva in Quando la moglie è in vacanza, manderà a quel paese Joe Di Maggio (che pure rimarrà forse l’unico dei suoi mariti a prendersi cura di lei nei giorni bui), abbraccerà il metodo Strasberg trasferendosi a New York per poi ritrovare il massimo successo solo nel 1958 con A qualcuno piace caldo che segna il ritorno alla difficile collaborazione con Billy Wilder, il regista che meglio l’aveva capita e più l’aveva detestata. Il suo ultimo Hurrah sarebbe stato Gli spostati in cui John Huston la diresse nel 1961. Ma ormai il Mito aveva schiacciato la donna e i suoi ultimi giorni erano già dietro l’angolo.
Il sostegno al morale delle truppe da parte di Hollywood era ormai una tradizione al tempo della guerra di Corea. Tutto era cominciato dopo Pearl Harbour, quando l’ondata patriottica popolare aveva accompagnato gli americani al fronte nella Seconda Guerra Mondiale. Se alcuni divi cercarono di andare al fronte in divisa (ci provò James Stewart, ci riuscì Clark Gable), molti altri – specie le attrici – si impegnarono in tour e iniziative benefiche.
A capeggiare l’impresa furono soprattutto Bette Davis e John Garfield con la famosa Hollywood Canteen che a guerra finita avrebbe accolto quasi tre milioni di soldati in licenza. Ma se molti di loro si limitarono a esibizioni in patria (e Carole Lombard ci perse la vita in un incidente aereo), altri varcarono l’oceano come Al Johnson e Bing Crosby. La più famosa resta però Marlene Dietrich che da tedesca antinazista divenne addirittura un simbolo, seducendo perfino il nemico cantando “Lili Marlene” nella sua lingua, mentre mostrava le bellissime gambe ai marines . La seguirono Betty Grable e Rita Hayworth che ebbe perfino l’onore di “vestire” con la sua immagine in negligé con pizzo nero la bomba nucleare fatta esplodere sull’atollo di Bikini nel 1946.
Infaticabile da un conflitto all’altro fu invece Bob Hope che era ancora in sella ai tempi del Vietnam e rivaleggiava in popolarità tra i soldati con John Wayne, mentre in patria Jane Fonda capeggiava la pattuglia degli antimilitaristi. Per capire il genere di spettacoli del resto basta guardare Apocalypse Now con la serata di avanspettacolo a bordo della chiatta sul Mekong.
Ma i quattro giorni al fronte di Marilyn restano –a modo loro- un fatto unico, un appuntamento col destino che del resto Norma considerava tanto significativo da concludere con questa avventura le sue memorie confessate al ghostwriter Ben Hect. Un’avventura che ha lasciato il segno anche nell’immaginario coreano. Non è un caso che per la sua recente mostra nella sede veneziana dell’European Cultural Centre, l’artista sudcoreana Oh Myung Hee abbia scelto un titolo evocativo: The Days Were Snowy But Warm” citazione della stessa Marilyn che così aveva ricordato quei giorni: “Nevicava ma faceva caldo, sembrava di essere a casa”. Nell’opera l’immagine della diva, posta al centro, si affianca a quella di una donna tradizionale del suo paese, mentre a sinistra si riconosce la scrittrice femminista Hye-Seok Nah, antesignana della battaglia per i diritti civili delle donne. Come a dire: senza il terremoto di Marilyn, le donne del mio paese forse sarebbero rimaste semplici custodi della tradizione e del focolare domestico.
Alle soglie delle presidenziali americane, ripercorriamo tutti i titoli più importanti con cui il cinema ci ha raccontato la politica Usa e i suoi dirty tricks
Al Festival di Cannes, in programma dal 14 al 25 maggio, il ritorno di tre leggende. L’ultimo hurrah di una generazione fiorita negli anni ’70 e capace di imprimere un marchio indelebile alla cultura del secolo?
L’avventurosa storia della Metro Goldwyn Mayer, una fabbrica di sogni nata il 17 aprile 1924
John Milius si definisce “un anarchico Zen e un samurai americano” ed è in questo impasto di culture e contraddizioni che bisogna indagare per capire la grandezza e la segreta follia dello sceneggiatore di Apocalypse now