29 ottobre 1964: esce il nono film di Michelangelo Antonioni, quarto capitolo della saga sull’incomunicabilità, primo film a colori del regista ferrarese e quinto sodalizio artistico (oltre che sentimentale) con Monica Vitti, conosciuta quando doppiava Dorian Gray ne Il grido (1957). Le ricorrenze, nella storia del cinema, spesso servono a indicare altrettante svolte nel percorso dell’arte del movimento lungo tutto il secolo scorso: roba polverosa e inutile – si potrebbe dire – di fronte all’arrembante evoluzione della tecnologia. Eppure valgono come le tacche che da bambini si segnano sul muro per ricordarsi come e quando si è cresciuti. In questo senso Il deserto rosso è una tappa storica e ce lo dicono due osservatori tutt’altro che neutrali: già anticipando l’evoluzione di Antonioni, un maestro come Alain Resnais scriveva su “L’avventura”: “Mi ha colpito in questo film mitico la padronanza straordinaria della disposizione degli attori in rapporto alla scenografia (e viceversa). Antonioni ha un modo singolare di introdurre i personaggi attraverso il paesaggio (e il contrario). La sua utilizzazione della profondità di campo ci imprigiona come mosche in una tela di ragno”.
E un perplesso Pier Paolo Pasolini: “Ne Il deserto rosso Antonioni non appiccica più, come aveva fatto nei film precedenti, la sua visione del mondo a un contenuto vagamente sociologico (la nevrosi da alienazione): ma guarda il mondo attraverso gli occhi di una malattia…. Attraverso questo meccanismo stilistico, Antonioni ha liberato se stesso: ha potuto finalmente vedere il mondo coi “suoi” occhi, perché ha identificato la sua visione delirante di esteticismo, con la visione di una nevrotica. Tale identificazione è in parte arbitraria, è vero, ma l’arbitrarietà in questo caso fa parte della libertà poetica”.
Nella memoria di uno spettatore comune ci sono pillole indigeste, film che sai che sono fondamentali ma che proprio non digerisci: a lungo questo è stato per me Il deserto rosso. La celebre battuta, scritta dal poeta Tonino Guerra – ‘Mi fanno male i capelli’ –, a me faceva venire l’orticaria, i dibattiti al cinema sull’importanza dell’incomunicabilità nella cultura contemporanea mi evocavano la fantozziana ‘boiata pazzesca’ riferita a uno dei più grandi film di sempre (La corazzata Potemkin). Eppure una voce interiore mi richiamava all’ordine; basta guardare un fotogramma qualsiasi del film per capire che il regista si era trasformato in un pittore astratto sulle orme di Rothko e un architetto geniale nel disegnare il rapporto tra umano e natura.
Ce lo dice lo stesso Antonioni del resto: “La storia è nata a colori, ecco perché dico che la decisione di fare il film a colori non l’ho mai presa, non era necessario prenderla. (…) nella vita moderna mi pare che il colore abbia preso un posto molto importante… Nel film ho cercato di usarlo in funzione espressiva, nel senso che avendo questo mezzo nuovo in mano, ho fatto ogni sforzo perché mi aiutasse a dare allo spettatore quella suggestione che la scena richiedeva”. Tutto giusto, tutto significativo ma Il deserto rosso rimaneva nella mia memoria “una mattonata pazzesca”.
A 50 anni di distanza lo rivedo e capisco il mio errore, che del resto è quello di una generazione: lo hanno definito il capitolo conclusivo della saga sull’incomunicabilità quando invece è il primo e più moderno film sulla depressione, autentico male del nuovo secolo, da poco riconosciuto come malattia sociale. La sceneggiatura mette al centro la disperazione esistenziale di una donna, Giuliana, inquieta signora borghese sposata a Ugo che non capisce per tempo cosa le accade. Giuliana alla fine è attratta dal migliore amico, Corrado, l’unico che ne intuisce il malessere ma, spinto dal costante desiderio della fuga, non può soccorrerla. Quando si ricovera in una clinica psichiatrica la donna maschera tutto come le conseguenze di un incidente stradale, racconta il suo vuoto interiore fingendo di raccontare quello di un’altra paziente, occulta il suo stesso tentativo di suicidio. Vorrebbe trovare nel figlio un estremo appiglio alla caduta, ma si descrive come una creatura senza più “pavimento” sotto i piedi, costretta a vivere su un piano inclinato che la attrae in un gorgo mortale. Guarda la sua casa modernissima e perfetta come un panorama estraneo e senza vita; la natura che osserva fuori dalla finestra sarebbe il confine verso la libertà, ma è irraggiungibile e corrotta; tra le braccia di Corrado non trova risposte e alla fine rimane paralizzata e prigioniera della depressione.
Nel 1964 era pressoché impossibile comprendere la profondità di sguardo che Antonioni ci offre servendosi della donna come la più potente rabdomante della paura contemporanea; ci sono voluti decenni, fino agli anni ’90, perché la psichiatria riuscisse a far catalogare la depressione come un sintomo oggettivo, una malattia tanto difficile da accettare quanto da curare. E solo adesso possiamo comprendere la lungimiranza del regista e il valore “sociologico” della sua indagine. Subito dopo Antonioni ha svelato la sua anima da investigatore poetico, una dimensione “noir” declinata tra Blow Up e Professione Reporter: ma le radici sono già ben evidenti in “eserto rosso: solo che io – come tanti – non le vedevo. Ecco perché oggi questo anniversario è per me un’occasione di ripensamento critico e di scoperta; la stessa che vi propongo, anche se l’esercizio di una diversa visione del film è un atto di coraggio e una dolorosa presa di coscienza. Non so voi, ma per me il mostro della depressione è un fantasma difficile da digerire ed è probabilmente proprio questo che mi teneva lontano dalla sintonia con questo film.
Poi c’è invece il piano stilistico. L’avventura del colore è davvero in Antonioni un percorso da esploratore: Via col vento o Il mago di Oz hanno ormai 25 anni quando nasce Il deserto rosso e il cinema italiano è tra gli ultimi ad adottare il colore come passaggio obbligato nella rappresentazione del reale sullo schermo. Antonioni è da sempre pittore e fotografo insieme: quando inquadra vede il mondo della borghesia rampante solo in bianco e nero, quando dipinge immagina ampie campiture di colore, sospeso tra la lezione di Morandi, la fisicità di Burri e la rivoluzione di Mondrian o Rothko. Così ne Il deserto rosso scopre il valore dei rossi e del terra di Siena per esplorare interni ed esterni, adotta il rosa e l’azzurro nel sogno sulla spiaggia di Budeli, incide con le cromie sature della plastica e del ferro per rappresentare una città (Ravenna) totalmente disumanizzata in cui la natura è stata uccisa dall’inquinamento.
Il suo complice in questo viaggio astratto è Carlo Di Palma, sperimentatore suo malgrado e non sarà un caso che, anni dopo, diventi lo “sguardo” di Woody Allen, altro indagatore del subconscio contemporaneo. In verità per entrambi questo schema mentale che porta all’astrazione (marcata dalla colonna sonora di due musicisti “seri” come Giovanni Fusco, pratico della materia, e Vittorio Gelmetti) è in qualche modo la stessa gabbia in cui sono imprigionati i loro personaggi. Prova ne sia che quando Antonioni racconterà la depressione con altra libertà (Jack Nicholson in Professione reporter) otterrà immediata empatia tra lo spettatore e il protagonista. Ma è anche vero che i tempi erano cambiati e tutti noi avevamo diversa consapevolezza dei traumi segreti del nostro animo. Invece è giusto ammettere che, già negli anni ’60 e grazie alla sua “musa” Monica Vitti, l’autore aveva messo la donna al centro del suo universo espressivo, la donna intesa come l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Risultato? Leone d’oro alla Mostra di Venezia e fuga del pubblico dalle sale. Oggi è tempo di cambiare idea e tornare a vederlo, questo Il deserto rosso, interpretandolo come un film di fantascienza sul Pianeta Rosso del nostro inconscio.
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