50 anni senza John Ford, l’orizzonte del cinema americano

Sono trascorsi cinquant'anni dalla morte di questo immenso monumento all’arte registica, uomo contraddittorio e circondato da un alone di leggenda costruito da lui stesso


“La prima cosa che succedeva quando ricevevi un incarico con John Ford era che tutti ti raccontavano storie leggendarie su di lui”, ricorda lo sceneggiatore Winston Miller che scrisse per lui Sfida Infernale, per esempio.

PRINT THE LEGEND

Spesso si trattava della famosa storia di un produttore che si lamentava con lui perché il regista era in ritardo di cinque pagine rispetto alla tabella di marcia, al che Ford strappava esattamente cinque pagine dalla sceneggiatura, le porgeva al produttore affranto e lo apostrofava: “Ora siamo di nuovo in tempo esatto”. Ovviamente non tutte le storie su John Ford sono vere e il motivo principale è che molte furono diffuse da lui stesso. Ford amava raccontare storie; che fossero vere o false non aveva molta importanza. Raccontava alla gente le fantasie più grottesche, con la faccia pulita dell’uomo sincero. Affermava che suo padre era venuto in America per combattere nella Guerra Civile, per dirne una, quando suo padre era arrivato in America solo sette anni dopo la battaglia finale di Appomattox. Ford era un uomo che raccontava storie per il gusto di raccontare storie – per divertire il suo pubblico, certo, ma soprattutto per divertire se stesso. Non a caso una delle biografie più belle scritte su John Ford ha come titolo Print the legend che viene a sua volta dalla celebre battuta di un suo film cult (L’uomo che uccise Liberty Valance): When the legend becomes fact, print the legend.

LA FINE DI UN’EPOCA

Sono trascorsi cinquant’anni dalla morte di questo immenso monumento all’arte registica, ma sembrano ancora di più. Nacque 1894 con il nome di John Martin Feeney. Nel corso di una carriera senza paragoni, Ford ha accumulato più di 140 titoli di film, tra cui i capolavori incontrastati come Ombre rosse (1939), Furore (1940), Un uomo tranquillo (1952) e Sentieri selvaggi (1956) e ben quattro Oscar. Già molto prima della sua morte, avvenuta il 31 agosto 1973, Ford aveva assunto la qualità di un punto cardinale, non diversamente dai contrafforti della Monument Valley, suo luogo d’elezione per le riprese. Secondo un altro grande cineasta, Peter Bogdanovich (che a lui ha dedicato un documentario e un bellissimo libro intervista), l’età dell’oro di Hollywood cessò con l’uscita, nel 1962, del malinconico L’uomo che uccise Liberty Valance, altra pietra miliare di una carriera irripetibile: “Quando quel treno se ne va, ho pensato: è davvero, la fine di Ford”, disse allo scrittore Peter Biskind, riferendosi all’inquadratura che chiude il film. “E la fine di Ford era davvero la fine di quell’epoca”. E non importa che Ford abbia vissuto poi altri 11 anni e abbia girato altri quattro film.

LE MILLE FACCE DI FORD

Ford era un noto romantico, colto e istruito (anche se gli piaceva dare di se stesso l’immagine di un rozzo self made man). Spesso sosteneva di essere nato in Irlanda, per la precisione diceva di essere nato in un pub, anziché nel Maine, e di essere stato battezzato Sean Aloysius O’Fienne nel 1895. Prese il suo nome d’arte da un fratello maggiore, Francis Ford, che lo aveva preceduto a Hollywood come attore e regista, ma dichiarava di averlo rubato dalla marca di un’automobile affinché il suo coinvolgimento nel cinema non disonorasse la sua famiglia. Ford era anche un uomo di contraddizioni. Dall’anima divisa in due. Da una parte il suo cuore batteva per la patria americana, ma non dimenticava mai di essere un cattolico irlandese-americano, quindi di appartenere a una minoranza disprezzata che si considerava esule da un’utopia. Così, quando si trattava di conflitti tra la cavalleria americana e gli indiani nei suoi grandi western del dopoguerra, Ford non si schierava apertamente, quasi che sembrasse considerare qualsiasi gruppo perseguitato come irlandese ad honorem. Vedi per esempio i minatori gallesi uniti dal dolore in Com’era verde la mia valle.

Arrivato a Hollywood nel 1914, Ford imparò rapidamente ogni aspetto dell’arte cinematografica. Divenne un prolifico regista di film, la maggior parte dei quali erano western. Quando diresse Il cavallo di ferro nel 1924, era già una figura importante e si avvicinò facilmente al sonoro. Anche se raramente libero dai vincoli commerciali del sistema degli studios, prosperò per più di 50 anni. Il problema principale del regista a Hollywood è sempre stato quello di come realizzare i film che si vogliono fare usando i soldi degli altri. Presentarsi come un artista era fatale, come avrebbero scoperto Sternberg e Welles, tra gli altri. Ford con grande senso pratico e acume non comune capì che il modo migliore per farsi strada era assumere la posa di un laborioso carpentiere commerciale che, guarda caso, lavorava nel mondo del cinema. Eppure, come ha scritto un altro suo noto biografo Joseph McBride  nel libro Searching for John Ford: A Life: “Ford è l’equivalente più vicino a uno Shakespeare nostrano. Ha raccontato la storia nazionale americana sullo schermo con una visione epica che ha attraversato quasi due secoli, dalla guerra rivoluzionaria alla guerra del Vietnam. Sebbene la visione dell’America di Ford sia intensamente patriottica, non si esime dall’affrontare i tragici fallimenti del Paese, i momenti in cui non siamo stati all’altezza dei nostri ideali. Qualunque siano gli eventi che descrive, la fedeltà naturale di Ford è sempre con lo spirito della gente comune americana”.

UN UOMO PERICOLOSO

Tuttavia, Ford era un uomo infelice e spesso pericoloso. Era un alcolizzato che spesso doveva essere ricoverato in ospedale dopo aver bevuto. Trattava in modo abominevole la moglie e i figli, ma aveva creato una famiglia cinematografica composta da attori, tecnici e assistenti, tanto che lo chiamavano Pappy, paparino. Era scortese, crudele e manipolatore in un modo che il suo talento non può scusare, né mitigare. La generosità si alternava a una terribile meschinità. Trattò John Wayne come se fosse suo figlio e lo trasformò in una star, ma lo umiliò spesso sul set, scherzando sul fatto che si fosse sottratto alla leva in tempo di guerra. Nei suoi film l’ambizione e il successo – contrapposti al dovere e al servizio stoico – sono considerati con sospetto. La sua politica, nella vita privata e nei film, è una massa di contraddizioni. Si oppose alla lista nera e si rifiutò di incontrare il senatore Joseph McCarthy, ma fu un membro di spicco della Motion Picture Alliance for the Protection of American Ideals, un’associazione ferocemente di destra.

ORIZZONTI DI GLORIA

Un uomo complesso dietro un cineasta immenso. Anche sulle sue parole in punto di morte esistono diverse versioni. Qualcuno afferma che abbia recitato un pezzo di preghiera: “Santa Maria, Madre di Dio”. Altri giurano che abbia detto con distacco: “Ora qualcuno mi dia un sigaro”. La terza opzione, sicuramente più suggestiva e cinefila, afferma che abbia gridato un secco: “Cut!” (la parola tradotta in italiano “stop” che si usa quando il regista pone fine a una ripresa). In tutti i casi a mezzo secolo dalla sua morte, resta tutto il suo alone di grandezza. Tanto da essere definito da tantissimi addetti ai lavori il più importante regista di sempre. E di ricevere ancora oggi un omaggio sentito da un altro dei più grandi cineasti della storia: Steven Spielberg che chiude il suo autobiografico The Fabelmans facendo impartire al suo alter ego aspirante regista una straordinaria lezione sul concetto di prospettiva, di visione, di espressione artistica: “Non devi dimenticarlo. Quando l’orizzonte si trova alla base è interessante. Quando l’orizzonte si trova in cima è interessante. Quando l’orizzonte si trova in mezzo è una merda noiosa. Ora, buona fortuna”. Ford è stato l’uomo che ha riscritto per sempre gli orizzonti della narrazione cinematografica. Cut!

Manlio Castagna
27 Agosto 2023

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