Esiste un impossibile ma ideale parallelismo tra il sogno megalomane di Francis Ford Coppola che nel 2024 porta a Cannes il suo generoso e testamentario Megalopolis senza nessuna certezza di mostrarlo nel suo paese e Sergio Leone che 40 anni fa, il 23 maggio per la precisione, trova proprio a Cannes la sua vendetta contro la cecità dell’America a cui aveva dedicato il suo opus magnum Cera una volta in America. Coppola a 85 anni (è del ’39) ha ancora la vitalità del ragazzino innamorato del cinema e sogna in grande pur maledicendo il futuro della Hollywood in cui ha trovato gloria. Leone arriva al traguardo di Cannes mentre combatte (e sa già che perderà) la battaglia contro la sciagurata versione sconciata dal produttore Arnon Milchan (119’ contro i 229’ mostrati a Cannes). Il successo in Europa gli darà ragione ma la ferita è profonda e – narra la leggenda – che quella sera a Cannes avesse parlato di “fine del cinema” come a presagire la sua, venuta 5 anni dopo al termine dell’inutile inseguimento di un altro sogno, L’assedio di Stalingrado. Ai grandi spesso accade che il mondo che li ha portati in trionfo, d’un tratto giri le spalle e dimentichi prima del tempo quanto ha ricevuto. E non c’è dubbio che l’ultima opera di Sergio Leone – un altro opus magnum – stia lì a testimoniare la grandezza quasi mitica di quell’ultimo passo poi consacrato dalla storia del cinema. Con l’occhio dello storico oggi possiamo capire perché l’America non capì l’omaggio nostalgico che il trasteverino Leone aveva voluto dedicarle. Non è solo questione di linguaggio – la struttura del film, racchiusa in un’ellissi difficile da decifrare e il continuo rimbalzare del tempo nell’arco di tre generazioni dagli anni ’20 e gli anni ’60 – ma di approccio ideologico. Con la saga di Noodles Aaronson e Max Bercovicz che alla fine del film sono solo dei sopravvissuti al tempo che passa, l’italiano osa dire che l’America nel cui mito è cresciuto non è mai esistita e che l’utopia che i suoi eroi hanno inseguito tra sangue, crudeltà, tradimenti e violenza è rimasta tutta nei libri, nei film, nei fumetti di cui il resto del mondo si è nutrito, vittima di un grande inganno che – non a caso –si spezza con la fine del sogno della Nuova frontiera kennediana. Per evitare ogni possibile ambiguità, Leone non parla di gangster italo-americani come Al Capone o Vito Corleone, ma di altre mafie che, dall’irlandese all’ebraica, hanno costruito anch’esse una società che non abbiamo il diritto di giudicare con parametri di semplice morale. Noodles non è un eroe senza macchia e Max non è un cattivo politicante. Hanno ucciso, stuprato, truffato tutti e due: soltanto che il primo ha vissuto nel ricordo di un sogno di affermazione e riscatto sociale spezzato dal tradimento di un amico mentre Max si è adeguato alla realtà dei tempi e ne ha tratto un effimero profitto, scontato col senso di colpa che lo condurrà alla scelta finale. Se oggi Coppola guarda all’antica Roma come monito per gli errori dell’oggi, Leone guardava alla tragedia greca per dirci che il mondo nuovo cresce sempre sulla bestialità delle genti, salvo che alcuni la accettano come normale e altri se ne fanno carico. A tutti e due del resto avrebbe provato a rispondere Martin Scorsese tra L’età dell’innocenza e Gangs of New York con la lucidità di chi non si fa intrappolare dal mito.
C’era una volta in America dichiara la sua genesi omerica (o favolistica) fin dal titolo e la ribadisce con un incipit sprofondato nell’oblio dell’oppio e la madeleine (spudoratamente proustiana) del ricordo. “Sono andato a letto presto” dirà Noodles all’amico Fat Moe che gli chiede cosa abbia fatto in tutti questi anni, guardandolo come un fantasma che riemerge dal passato dove avrebbe dovuto restare. E questa rimane la sintesi dell’incredibile viaggio nella memoria che il film ci mette sotto gli occhi. Quattro decenni che non scandiscono soltanto la vita di un gruppo di ragazzini cresciuti nei Roaring Twenties di New York ma che segnano il passaggio dell’America dalla sua infanzia alla sua età adulta, quando si è spezzata la grande illusione con l’assassinio Kennedy e la guerra del Vietnam. Il regista si tiene ben lontano da questi dati storici (anche il proibizionismo, l’inquinamento dei sindacati, l’avidità della politica rimangono sullo sfondo), ma lo spettatore non può non ricordarli e fare da solo i necessari collegamenti. Questo a mio parere è il primo segno che fa del film un capolavoro indimenticabile: quando Omero narra di troiani ed achei non ha bisogno di citare Atene, Sparta, la Macedonia e la Persia; quando Virgilio racconta di Enea e Turno noi sappiamo quello che è accaduto di Roma dalla Repubblica all’Impero; quando Shakespeare dice di Romeo e Amleto li colloca a Verona e in Danimarca ma per noi l’età elisabettiana resta vivida e immanente. Il secondo tratto memorabile sta proprio in ciò che Leonardo Sciascia indicava come un difetto capace di allontanarlo dalla collaborazione con Leone: “A lui – annota Sciascia in un immaginario soliloquio dopo aver incontrato il regista nel 1972 – interessano innanzi tutto i sentimenti semplici e che una volta si dicevano eterni: e intende sempre salvarli, anche nelle situazioni più ignobili o spietate, a riscatto dei suoi spietati o ignobili eroi”. Proprio questa dimensione epica che non può appartenere allo scrittore di “A ciascuno il suo”, dà vita alla nostalgica elegia del film che vedrà la luce ben 12 anni dopo grazie al lavoro di un composito pool di sceneggiatori (Kim Arcalli, De Bernardi e Benvenuti, il viscontiano Enrico Medioli, l’apprendista Franco Ferrini) che ebbero la meglio sia rispetto al romanzo originale (l’ingenuo e autobiografico The Hoods di Harry Gray, pseudonimo del gangster Herschel Goldberg), sia alla versione (bocciata) di Norman Mailer di cui resta l’eco solo nell’adattamento ai dialoghi firmato da Stuart Kaminski.
L’eccezionalità del film sta poi nel suo cast: finalmente in grado di gestire un budget all’altezza della sua ambizione – 30 milioni di dollari – Leone fa ricorso al gotha di Hollywood (un incredibile Robert De Niro, un James Woods mai così intenso, Joe Pesci, i caratteristi Burt Young, Richard Bright, il giovane Treat Williams) cui affianca con testardaggine figure femminili che vuole “senza aura da dive” e che diverranno iconiche come Elizabeth McGovern e la giovanissima Jennifer Connelly (le due Deborah di Noodles Max).
Infine, si sa, c’è la colonna sonora di Ennio Morricone, diventata tanto familiare alle nostre orecchie da essere stata predata nel tempo per ogni occasione, dai matrimoni ai funerali, alla pubblicità del formaggio. Quella musica, frutto della genialità del musicista, era però tutta nella testa del regista che voleva dare al film il timbro di un melodramma italiano dell’età romantica in cui la nostalgia e la tenerezza vincono sull’eroismo, più Puccini che Verdi insomma. Ascoltate quelle note e legatele alla parola nostalgia, troverete il cuore dell’intento di Sergio Leone: trasmetterci il disperato canto funebre di una civiltà attraverso un sogno che, al risveglio, si è fatto amara nostalgia di ciò che sembrava essere e non è stato.
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