Il bisogno di controllo e la necessità di ripetersi quotidianamente. Dylan Branson (l’olandese Michiel Huisman, nel 2014 diretto da Baz Luhrmann nella campagna per Chanel N.5; nel 2015 in Adaline – L’eterna giovinezza con Blake Lively) controlla il traffico aereo del JFK di New York, un mestiere di estrema precisione e ripetitività che si confanno con il suo carattere, fino a quando un episodio di pattern algoritmici (semplificando, una visione di “percorsi che seguono uno schema”) non gli fa rischiare di essere causa di una collisione tra aerei, cosa che gli costa però la sospensione.
Tutto succede alle ore 2:22 del pomeriggio, alcuni giorni prima del suo trentesimo compleanno: da qui una successione precisa, quotidiana, di eventi che pedissequi si ripetono, sempre nell’ordine, sempre alla stessa ora, soprattutto alla Grand Central Station di New York. Ogni sinistro e indecifrabile evento che si ripete sembra perfettamente incastonarsi, secondo uno schema indecifrabile, con la vita affettiva di Dylan, che ha appena conosciuto Sarah (l’attrice australiana Teresa Palmer), non per caso era tra i passeggeri di uno di quei voli che Dylan ha rischiato di far collidere.
Così l’amore, la cadenza del tempo, l’arte con le sue declinazioni e la Station si amalgamano in crescendo fino all’epilogo, meno ricco di tensione delle sequenze che costruiscono la sceneggiatura e non all’altezza dell’originale trama, scritta da Todd Stein, perché molto lineare nel deducibile finale. Oltre Dylan e Sarah, anche Jonas (Sam Reid), l’ex fidanzato di lei, sono protagonisti della storia, ma non da meno la città di New York e la Station, di cui il regista ha detto: “La Grand Central è la quintessenza delle stazioni ferroviarie. Dovevamo dargli una connotazione quasi da cattedrale”.
La scenografia, tanto della stazione, quanto della metropoli, risulta credibile, considerato che Sidney ha fatto da controfigura alla città americana, non lasciando assolutamente tradire la cosa: la soluzione produttiva perfetta si è trovata nella combinazione di una struttura finanziaria di sovvenzioni governative australiane, capitali dell’isola, prevendite internazionali e finanziatori privati, ecco perché la scelta della grande città australiana come location per girare. Tutto diretto dalla visione sofisticata del regista Paul Currie, un esteta, un occhio raffinato nel mostrare il dettaglio macroscopico – le gocce di acqua che piovono dalla doccia, il liquido del caffè che riempie la caffettiera trasparente, la fiamma del gas che trema viva -, come nell’abilità con cui usa ripetutamente l’inquadratura a piombo dall’alto, spettacolare in più di una sequenza, dalla Manhattan che prende corpo da una visione notturna della volta celeste, all’aeroporto JFK in panoramica, fin sul filo del cornicione di un grattacielo su cui resta in bilico il protagonista, sospeso tra l’attrazione verso le sottostanti e brulicanti strade di New York e il cielo nero punteggiato di stelle.
Del film, Currie, al suo secondo lungometraggio da regista (One Perfect Day, 2004: Best Debut Director secondo la Screen Director’s Association of Australia) ha detto: “Todd Stein aveva questa meravigliosa visione karmica della vita. Quando ho letto il copione, ho pensato: ‘questa è una storia che sta proprio nel mio DNA da regista’. La sceneggiatura era oscura, ma ho sentito che all’interno del thriller c’era un’idea – un concetto sul tempo e sull’amore nel tempo – che era molto più ampio. Ho capito che era uno di quei rari progetti commerciali con attrattive su più livelli”.
Il film esce in sala dal 29 giugno, distribuito da Notorius Pictures.
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