Sidney Lumet è stato un regista coraggioso. Forse sarebbe l’aggettivo che lo avrebbe fatto più felice. Lui, regista stacanovista per eccellenza, a proposito della sua filmografia disse in un’intervista quando ormai era già ottuagenario: “La mia opera farà la sua strada; non c’è più nulla che io possa fare al riguardo. Ci sono molte cose che non sono evidenti ora e che spero diventino palesi quando me ne sarò andato… Vorrei che qualcuno lo notasse. Vorrei che qualcuno notasse che non ho avuto paura”.
Una dichiarazione bellissima e sincera. Il suo cinema ha raccontato senza mai tirarsi indietro storie guidate da un forte spirito morale. Sistemi corrotti contro protagonisti coraggiosi, il peggiore degli uomini contrapposto al migliore, l’onestà di fronte all’ipocrisia: la filmografia di Lumet riflette la sua dedizione a difendere ciò che è vero e ciò che è giusto in un mondo spesso ritratto come spietato.
“Sebbene l’obiettivo di tutti i film sia quello di intrattenere”, ha scritto Lumet, “il tipo di film in cui credo va oltre. Costringe lo spettatore a esaminare un aspetto o l’altro della propria coscienza. Stimola il pensiero e fa scorrere i fluidi mentali”.
Figlio di attori polacchi del teatro yiddish, nato il 25 giugno 1924, avrebbe compiuto, quindi, 100 anni proprio in questi giorni. Lumet ha iniziato come attore prima di passare dietro la macchina da presa. La sua esperienza sul palcoscenico ha sicuramente influenzato la sua natura empatica e la capacità di compenetrazione nella direzione degli interpreti, tanto da conquistare la reputazione di “director of actors”. Direttore di attori.
Nel corso della sua carriera, ha diretto 17 interpreti che hanno ottenuto la nomination all’Oscar (sei dei quali hanno vinto). Lumet ha ricevuto cinque nomination agli Oscar, ricevendo infine un premio onorario nel 2005 che suona un po’ come un premio di consolazione per una carriera che avrebbe meritato statuette “ufficiali”.
Lo stile di Lumet non è particolarmente riconoscibile: non utilizzava immagini caratteristiche, né tendeva a lavorare costantemente con lo stesso direttore della fotografia o montatore. Nel suo libro di memorie Making Movies, Lumet ha scritto: “Il buon stile, per me, è uno stile invisibile. È uno stile che si ‘sente’ non che si nota”.
Riflettendo sulla filmografia di Lumet, questa presunta “mancanza” di stile rivela la capacità distinta e profonda di Lumet di ritrarre la condizione umana. Lo stile di Lumet si ritrova proprio nelle interpretazioni di grande potenza che riusciva a stanare nelle sue attrici e nei suoi attori, sia quando erano portatori di valori saldi, come individui coraggiosi e ribelli, sia colti nel momento della loro bancarotta morale.
Si è formato durante l’epoca d’oro della televisione negli anni Cinquanta, che ha plasmato il suo stile cinematografico energico e la sua preferenza per la narrazione realistica. I suoi film sono generalmente studi sui personaggi o drammi psicologici, e spesso esplorano i temi della vita familiare e della giustizia, coinvolgendo spesso il sistema legale e i media.
Lo sfondo preferito per le sue storie non poteva che essere New York City, con i suoi contrasti, la sua vita vera opposta all’ambientazione di “carta pesta” di Los Angeles. Lumet è stato un cantore magnifico della Grande Mela, regalandoci molte gemme nel corso della sua carriera lunga mezzo secolo e i suoi film degli anni ’70 sono invecchiati molto bene.
Insomma un gigante della storia del cinema e di cui non si possono non vedere almeno queste sue 5 opere fondamentali:
Esordio cinematografico notevole di Lumet. Forse il più importante dramma giudiziario del cinema, La parola ai giurati si svolge interamente all’interno di una sala di giuria. Lì, questi 12 uomini deliberano su un caso apparentemente aperto e chiuso di un giovane (John Savoca) accusato di aver ucciso il padre. Tuttavia, diventa presto chiaro che i preconcetti, i pregiudizi sociali e personali offuscano il giudizio di alcune di queste persone. Henry Fonda offre un’interpretazione di spicco nel ruolo del giurato numero 8, l’unico che inizialmente vota “non colpevole” e insiste per un esame approfondito delle prove.
Opera fondamentale che rappresenta uno degli intramontabili del cinema anni Cinquanta e un ritratto sempre attuale sul sistema giudiziario americano.
Il film si svolge in una prigione militare britannica in Nord Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. I soldati alleati che commettono reati come l’insubordinazione o il furto vengono reclusi e puniti. Sono sorvegliati dal sadico sergente maggiore Williams (Ian Hendry), che li sottopone a tutti i tipi di castighi, tra cui quella di costringerli a scalare una collina artificiale al centro del campo. Quando uno dei prigionieri muore, scoppia un aspro conflitto tra alcuni ufficiali del campo e i detenuti, guidati dall’ex sergente maggiore di squadra Joe Roberts (Sean Connery). Lumet ha dichiarato che la trama di La collina del disonore è secondaria rispetto allo studio dei personaggi, poiché si concentra sulla psicologia degli uomini in questo ambiente brutale.
Con Serpico, Lumet combina abilmente un biopic con un film poliziesco per creare uno dei drammi polizieschi più iconici degli anni Settanta. Al Pacino offre un’interpretazione straordinaria nei panni di Frank Serpico, un poliziotto idealista che si rifiuta di chiudere gli occhi di fronte alle frodi e ai comportamenti scorretti che lo circondano. Diventa un informatore, denunciando la corruzione diffusa all’interno della polizia prima di diventare un bersaglio dei suoi ex compagni. Girato in un crudo stile documentaristico, dal punto di vista tematico, il film è essenzialmente una riflessione di Lumet sull’America dell’era del Watergate, dove l’umore dominante era quello del pessimismo e della disillusione nei confronti dell’autorità.
Un dramma criminale basato su eventi reali, vede protagonista Al Pacino nel ruolo di Sonny Wortzik, un rapinatore di banche disperato e un po’ inetto. Insieme al suo socio, Sal (John Cazale), Sonny tenta di rapinare una banca per finanziare un intervento di riassegnazione del sesso per la moglie transgender, Leon (Chris Sarandon). Quando la rapina va a vuoto, Sonny si trova intrappolato in uno stallo con la polizia. I giornalisti si precipitano sulla scena, trasformandola rapidamente in uno spettacolo mediatico. Un pomeriggio di un giorno da cani è un film anti-establishment che mette in discussione l’autorità. Il film critica Wortzik e le sue motivazioni, ma è anche in qualche modo comprensivo nei suoi confronti. Invece di essere il cattivo, è un antieroe imperfetto e sorprendentemente complesso.
È un’esplorazione satirica e profetica dei media e della loro influenza sulla società. Segue Howard Beale (Peter Finch), un conduttore veterano del telegiornale il cui guasto in trasmissione porta a un aumento degli ascolti. Invece di licenziarlo, il network sfrutta l’instabilità di Beale e lo trasforma in un profeta sensazionalista, portando a un declino dell’integrità giornalistica. A Finch si affiancano una bravissima Faye Dunaway nel ruolo di Diana Christensen, una spietata dirigente del network e William Holden nel ruolo di Max Schumacher, un amico di lunga data di Beale invischiato nel pantano morale del panorama mediatico. Quinto potere è una critica pungente alla mercificazione delle notizie, alla ricerca degli ascolti a scapito della verità e all’impatto disumanizzante dei media sugli individui e sulla società
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