Questa volta l’anniversario è spettacolare quanto dimenticato: il 23 novembre 1923 il mondo del cinema e il pubblico americano rimasero a bocca aperta di fronte a I dieci comandamenti del re dei kolossal Cecil B. DeMiIle. Quei 146 minuti di cinema muto, con spettacolari inserti a colori e i più inverosimili effetti speciali mai visti, erano destinati a lasciare il segno e a superare perfino il ricordo di capolavori come Cabiria di Giovanni Pastrone e Intolerance di D.W. Griffith. Esclusi gli studiosi di cinema, la gran parte dei cinefili non ha memoria diretta di quel film, ma è assai probabile che abbiano visto il remake del 1956, opera ultima dello stesso autore che volle superare se stesso anche in durata e spettacolarità: 220 minuti che restano il più celebre evergreen nei palinsesti televisivi con implacabile cadenza ad ogni festività pasquale.
Per capire come mai in pieni anni ’20 un maestro del marketing cinematografico, formidabile manager del suo successo, celebre per aver coniato il meccanismo di “sangue e sesso” in film come Maschio e femmina (1919), Paradiso folle (1921) o La corsa al piacere (1922), abbia affrontato La Bibbia e in particolare il Libro dell’Esodo, conviene guardare Babylon di Damien Chazelle. La discesa agli inferi del protagonista fotografa una società hollywoodiana senza più freni. Siamo alla vigilia del codice Hays, manifesto morale redatto nel 1930 dopo un decennio di eccessi sullo schermo che avevano messo in cattiva luce il nuovo business cinematografico. Babylon comincia nel 1926, ma già prima spirava una brutta aria per registi e divi nella puritana società americana: alcool, bisessualità, fatti criminali, incursioni sado-maso e leopardi in libertà potevano accendere le fantasie degli spettatori, ma in pubblico e nelle chiese erano considerati personificazione del Diavolo. DeMille capisce in fretta che c’è bisogno d’altro per un’America in cui cattolici e protestanti dettano legge fin dalla nascita dalla Costituzione del 1987 e sceglie di andare al cuore del suo pubblico con una storia di conquista e redenzione, le due parole sacre per ogni buon pioniere. Lavora alla sceneggiatura insieme alla fedele Jeanie MacPherson (allieva di Griffith), si concentra sulla visualità di un’epopea che ha per centro Mosé e sarà una vera e propria “biblia pauperum” d’inizio secolo. Guarda a pittori come John Martin o Edward Poynter (esplicitamente citato in un quadro del film), ma ha negli occhi soprattutto Gustave Doré che aveva disegnato le incisioni dell’Antico Testamento fin dal 1864 ottenendo un grandissimo successo anche in America.
Nella visione di DeMille il riscatto del popolo ebraico dalla schiavitù del faraone Ramses è un viaggio: prima nella purificazione e poi verso la conquista di una terra da colonizzare prima che da ritrovare. Quando poi la si raggiunge, l’adorazione dei falsi miti (il vitello d’oro di cui cadono preda la sorella di Mosè, Miriam e Dathan) sembra prevalere e ci vuole un intervento divino e l’imposizione della Legge delle Tavole perché il popolo ebraico sia finalmente libero e osservante. Probabilmente preoccupati che il messaggio non fosse abbastanza forte e chiaro, regista e sceneggiatrice sviluppano allora un plot parallelo d’ambientazione moderna che ribadisca il concetto attraverso la vicenda da fratelli/coltelli di John e Dan con tanto di chiesa che si abbatte – uccidendola – sulla madre dei due, una nuova Miriam (adesso Mary) egualmente colpita dalla lebbra come la sua antenata e un finale tragico con morte in mare di Dan, il fratello reprobo. Tutti gli studiosi concordano che questa seconda parte del film è sostanzialmente convenzionale e posticcia. Ma a quel tempo suonò certamente come un monito e venne concepita come lavaggio sacrale dopo che lo spettatore si era emozionato di fronte alla crudeltà dell’ultima piaga abbattutasi sui miscredenti egizi, si era beato davanti al prodigio del Mar Rosso in tempesta che si apre per far passare Mosè e si richiude sui carri del Faraone, si era spaventato di fronte al Roveto ardente e indignato per la poca fede di Dathan.
Quando riprende in mano lo stesso soggetto trent’anni dopo, in finale di carriera, Cecil DeMille ha la fama del maestro del kolossal cristologico, da Il re dei re a Sansone e Dalila. Sulla Hollywood degli anni ’50 questo tipo di spettacolo magniloquente ha di nuovo molta presa: Quo vadis? ha dato la stura nel ’51 alla stagione dei peplum; due anni dopo “La tunica” ha mostrato lo splendore del Cinemascope; per il vecchio leone il guanto di sfida è troppo importante tanto da fargli superare in soli due giorni un infarto a metà riprese. Modellerà il suo Mosè su quello di Michelangelo e imporrà barba e carisma a Charlton Heston che poco dopo si ripeterà con Ben Hur; al suo fianco Yul Brynner passa mesi di prove e palestra per non sfigurare alla guida del suo carro regale e le maggiori star del momento fanno a gara per avere una parte. Da notare che per il ruolo di Dathan, DeMille che era stato tra i primi crociati del maccartismo, sceglierà Edward G. Robinson, fin lì messo al bando dalle produzioni per sospette simpatie comuniste. Ma forse il regista ci mette del suo nell’assegnargli una parte alla fin fine spregevole. Il colorato remake resta ancora oggi uno dei dieci maggiori incassi nella storia del cinema.
Perché I dieci comandamenti al cinema non conoscono flessioni tra muto e sonoro, tra gli anni ’20 e i ’50? Se da una parte c’è ovviamente il richiamo di una storia che amiamo sentirci raccontare ogni volta sapendone già il finale; se dall’altra è un’epopea che può contare sul favore di tutte le chiese monoteiste dell’Occidente, la vera spiegazione è nel taglio western che il regista coglie fin dall’inizio e che il cowboy Heston rende scoperto: come nella storia degli Stati Uniti e in quella di Israele, si tratta dell’epica della conquista, dell’appropriazione della Buona Terra come la Nuova Frontiera, dell’affermazione di un’identità nazionale su cui entrambi i popoli hanno costruito un analogo sistema di valori, sapendosi liberare dal giogo del potere e di ogni altro popolo grazie alla certezza di essere – soltanto loro – il popolo eletto.
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