TORINO – “Povero non è colui che possiede poco, ma colui che desidera di più” scriveva Seneca, e da questo adagio parte Maurizio Zaccaro col suo La felicità umana, il documentario che porta al TFF e che indaga un aspetto a volte sfuggevole, ma così fondamentale, dell’esistenza, la felicità appunto. Un film, frutto di oltre tre anni di lavoro, fatto di incontri e riflessioni, in un viaggio attraverso il mondo in cui intervista intellettuali e artisti, tra cui Serge Latouche a André Comte-Sponville, Carsten Seyer-Hansen, Markus Imhoof, José Pepe Mujica, ma anche gli italiani Sergio Castellitto, Ermanno Olmi e Bruno Bozzetto. Alla ricerca di quell’ingrediente, per niente scontato, che doni il vero appagamento. Qualcosa che in realtà non ha niente a che fare col benessere materiale, come ricorda nel documentario il filosofo Serge Latouche che sottolinea che “non c’è nessun rapporto tra felicità e Pil di un Paese. Anzi, le società più felici non sono le più ricche”. E sembra aver ragione, almeno stando a quanto dice il Rapporto Mondiale della Felicità redatto dall’Onu, in cui tra i Paesi molto felici troviamo luoghi come la Danimarca e l’Australia ma anche il Bhutan. Una spiegazione prova a darla il musicista e filosofo Carsten Seyer-Hansen: “In Danimarca, in quanto a felicità, va meglio che in altri paesi. Il fatto è che c’è poco divario tra classe ricca e classe povera. Siamo tutti più o meno sullo stesso livello economico medio”. Ponendo l’accento, appunto, su quello che può essere un fattore scatenante d’infelicità: la diseguaglianza mondiale e la tirannia dell’economia selvaggia e feroce in cui vive il mondo occidentale, che impone un consumo ossessivo e senza limiti.
“Oggi succede che da un lato ci sono esseri umani, nel mondo occidentale, che s’illudono di vivere nella felicità, anche se sintetica, e altri che non riescono nemmeno a immaginarla perché provenienti da contesti complicati da guerre, carestie, tirannie”, spiega Maurizio Zaccaro in conferenza stampa, che continua: “Viviamo in un circolo vizioso (vivi, produci, consuma, muori), ci disperiamo, lottiamo, sudiamo per poi spegnerci nel silenzio, rimbambiti e soli, magari dentro case di riposo dal nome involontariamente beffardo, come “Villa Felice”. La felicità è un termine economico, è qualcosa che ci viene imposto dai media. Dovremmo uscire da questa logica e cercare di liberarci dall’accumulo. Una decrescita felice, che non vuol dire annullare tutto e tornare a mangiare ghiande, ma saperci accontentare, capire che far code interminabili davanti ai negozi per comprare l’iPhone 8 è una vera follia. Occorre decolonizzare la mente dai bisogni effimeri indotti da un mercato sempre più feroce e cinico e a quel punto la vera felicità arriverà da sé, grazie alle nostre relazioni sociali, alla vita serena con gli amici, con la propria famiglia, con i figli, decolonizzando così la nostra mente ”.
Che felicità non può essere ossessiva ricerca dell’appagamento personale, ma va contestualizzata all’ambiente in cui il singolo individuo vive. Una riflessione che non può che far risaltare le disuguaglianza crescenti del mondo contemporaneo che diventeranno probabilmente presto insostenibili per le società occidentali, che in questo momento stanno reagendo scompostamente. “Occorrerebbe invece una risposta che può dare solo la politica”, ribadisce nel film Il filosofo André Comte-Sponville che a proposito del terrorismo di matrice islamica sottolinea: “Non si deve cadere nei due estremi. Né dire che tutti gli islamici sono terroristi, ma neppure pensare che non ci sia alcun rapporto tra terrorismo ed Islam. Sarebbe come dire che tra marxismo e stalinismo non ci sia alcun legame”. Sempre a proposito della forbice delle disparità Zaccaro sottolinea il contributo del regista di La barca è piena, Markus Imhoof, che mette in evidenza il paradosso di un mondo sempre più globalizzato in cui le merci possono circolare con grande libertà, mentre non possono farlo gli uomini, o almeno quelli provenienti da certi contesti.
Una visione di mercato che è alla base della felicità e dell’infelicità, e che nel film trova d’accordo anche l’ex presidente dell’Uruguay José Pepe Mujica: “Quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere.”
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