VENEZIA – Sulla pace tra Israele e Palestina, ”bisogna continuare a essere ottimisti perché sennò si diventa nichilisti. L’Europa ha avuto due guerre mondiali nel secolo scorso in cui sono morte milioni di persone. La soluzione ai conflitti non è la violenza, non l’abbiamo ancora capito, ma ci arriveremo”, lo afferma il regista israeliano Amos Gitai, tra gli autori dell’opera corale Words With Gods, presentato alla Mostra fuori concorso, e di Tsili. ”In tutti e due i film parlo di diritti umani, necessità di dialogo e rispetto dell’altro – dice ancora il cineasta israeliano – Oggi tra gli ostacoli principali alla pace ci sono proprio la mancanza di dialogo e la spettacolarizzazione della violenza, che è in continua escalation”. Nel suo episodio di Words with Gods, film che esplora da diverse prospettive d’autore il rapporto con le religioni, ha deciso di mettere in scena attraverso i monologhi degli attori in uno scenario di guerra, alcuni brani del libro di Amos, dall’Antico Testamento: ”E’ il profeta da cui prendo il nome – spiega – Era un pastore, vissuto tremila anni fa. Rileggendolo, mi sono accorto di quanto fosse incredibilmente attuale. Ha il coraggio di attaccare il potere, ma è una critica che nasce dall’amore non dall’odio. Parla di giustizia sociale, del bisogno di tolleranza e convivenza, della Siria, di Gaza. Oggi affrontare questi temi è più facile, ai suoi tempi si rischiava molto di più”. Secondo Gitai, ”oggi ci dobbiamo chiedere come cineasti qual è il nostro ruolo nella società, tornare alle culture delle origini in cui l’artista era visto come taumaturgo, curava i mali della vita, la stessa essenza che dovrebbe avere la religione”.
Per Guillermo Arriaga, produttore e ideatore del progetto, Words with Gods è un film, ”per imparare a rispettarci l’un l’altro, conoscere di più se stessi e promuovere la tolleranza religiosa”. Il film che ha la supervisione di Mario Vargas Llosa e la musica originale di Peter Gabriel, è aperto da Veri dei di Warwick Thornton, su una ragazza incinta che per il parto decide di ritrovare il contatto con la Madre Terra. ”Con Guillermo abbiamo prima litigato poi ci siamo innamorati – scherza l’australiano di origine aborigena -. Ho cercato una storia che raccontasse la nostra tradizione, ma in chiave moderna”. In Sofferenze, il giapponese Hideo Nakata descrive l’incontro fra un uomo che ha perso la famiglia durante lo tsunami del 2011, e un monaco buddista. ”E’ un monaco che ho conosciuto realmente mentre lavoravo a un documentario sullo tsunami, una figura che mi ha molto colpito”, dice il cineasta. E’ sull’elaborazione del lutto anche L’uomo che rubò un’anatra di Hector Babenco, che sceglie per protagonista un senzatetto impazzito dopo la perdita del figlio. ”Mi sono accorto – spiega – che in tutte le persone che cercano Dio c’è il dolore, l’incapacità di affrontare la propria esistenza, si cerca un medico per l’anima”. Ha un tono più leggero Mira Nair raccontando una tradizione indù in La stanza di Dio”: ”Gli adulti attribuiscono a Dio le proprie ipocrisie mentre il bambino della storia, che è innocente, riesce a vederlo ovunque”. In La nostra vita, Kusturica è regista e protagonista del sacrificio fisico giornaliero che compie un prete ortodosso. Alex De la Iglesia vira sulla commedia con La confessione, su un killer scambiato per un prete e portato al capezzale di un moribondo ateo. Un modo per riflettere su come ”si sia più vicini a Dio da peccatori che ammettono i propri errori, come lo furono i ladroni vicino a Cristo”. Arriaga in Sangue di Dio, immagina una pioggia di lacrime di sangue di un Dio stanco dei peccati del mondo mentre l’iraniano di origine curda Bahman Ghobadi preferisce la leggerezza in A volte alza lo sguardo, su due gemelli siamesi adulti, rimasti attaccati per la testa, con inevitabili difficoltà quotidiane. ”Io credo in Dio ma non nella religione, che sembra diventata solo causa di violenze. Attualmente – dice Ghobadi, che vive e lavora all’estero – i ricchi e potenti stanno affrontando la religione con linguaggio severo, come fosse un’arma. Per questo nei prossimi film vorrei parlarne con ironia e comicità”. E ancora: ”Le persone si stanno uccidendo in Iraq e Kurdistan solo per la religione, che doveva aiutare l’umanità ma sembra stia facendo il contrario. Nella mia terra si porta dietro un’ombra oscura di violenza e atrocità”.
"Una pellicola schietta e a tratti brutale - si legge nella motivazione - che proietta lo spettatore in un dramma spesso ignorato: quello dei bambini soldato, derubati della propria infanzia e umanità"
"Non è assolutamente un mio pensiero che non ci si possa permettere in Italia due grandi Festival Internazionali come quelli di Venezia e di Roma. Anzi credo proprio che la moltiplicazione porti a un arricchimento. Ma è chiaro che una riflessione sulla valorizzazione e sulla diversa caratterizzazione degli appuntamenti cinematografici internazionali in Italia sia doverosa. È necessario fare sistema ed esprimere quali sono le necessità di settore al fine di valorizzare il cinema a livello internazionale"
“Non possiamo permetterci di far morire Venezia. E mi chiedo se possiamo davvero permetterci due grandi festival internazionali in Italia. Non ce l’ho con il Festival di Roma, a cui auguro ogni bene, ma una riflessione è d’obbligo”. Francesca Cima lancia la provocazione. L’occasione è il tradizionale dibattito organizzato dal Sncci alla Casa del Cinema. A metà strada tra la 71° Mostra, che si è conclusa da poche settimane, e il 9° Festival di Roma, che proprio lunedì prossimo annuncerà il suo programma all'Auditorium, gli addetti ai lavori lasciano trapelare un certo pessimismo. Stemperato solo dalla indubbia soddisfazione degli autori, da Francesco Munzi e Saverio Costanzo a Ivano De Matteo, che al Lido hanno trovato un ottimo trampolino
Una precisazione di Francesca Cima
I due registi tra i protagonisti della 71a Mostra che prenderanno parte al dibattito organizzato dai critici alla Casa del Cinema il 25 settembre