CANNES – Stesso titolo – Whitney – stesso linguaggio cinematografico – il documentario strutturato tra repertorio e testimonianze posate, stesso arco narrativo – dalla nascita a Newark, attraverso la parabola di successo universale fino alla distruzione per via della droga, e poi la scomparsa prematura.
Lo scozzese Kevin Macdonald (premio Oscar per il documentario Un giorno a settembre, nel 2000) arriva sulla Croisette con un biopic su Whitney Houston, un anno dopo quello curato da Nick Broomfield per la BBC,che uscì in Italia con Eagle Pictures a fine aprile scorso.
Più d’una le affinità tra le due messe in scena: necessariamente la trama, la biografia di Whitney Houston che anche in questo documentario viene raccontata dal principio, dalle origini a Newark in cui la chiesa locale è stata il “primo palcoscenico”, quello in cui, senza poter allora conoscere il futuro che la sua voce le avrebbe riservato, le ha concesso le sue prime “esibizioni”, guidata, curata, indottrinata, protetta da una mamma sempre presente e fortemente centrata sul talento della figlia. Un talento concreto che lei, la madre Cissy Houston, non ha mai considerato una dote a corredo, ma uno strumento da usare per disegnare il progetto di vita professionale di Whitney, una carriera erede anche di un bagaglio cromosomico in cui la musica era di certo preponderante: la mamma è stata corista per Aretha Franklin, nonché per Dionne Warwick, di cui era anche zia e “protagonista nera” di questa versione della vita di Whitney Houston.
Non c’è stato però solo un matriarcato alle spalle della vita di Whitney, ma un vero è proprio “clan Houston”: le hanno sempre fatto cordone anche i fratelli – testimoni anch’essi in questo racconto – e il padre, profili che, a fasi alterne e alternate, hanno sempre strutturato l’entourage della cantante, non senza egoismi e difetti che sono ricaduti su di lei. Come la droga – informazione ormai sdoganata -, che entrò già nell’adolescente vita di Whitney, proprio per la condivisione con uno dei fratelli, senza che sin da allora sembrasse qualcosa di così scorretto.
Il materiale che Kevin Macdonald usa per raccontare Whitney Houston è tutto repertorio, in parte inedito. Più patinato e meno “filmino di famiglia” – come invece nel doc BBC – con la presenza diretta della cantante soprattutto in forma di audio originale estratto da interviste: personalmente compare poco, se non nel repertorio dei concerti e delle copertine, ma fuori dal palco solo in passaggi cruciali, come quello della storica dichiarazione alla televisione americana dopo essere apparsa in pubblico, durante l’ultimo tour, con macroscopici “segni” sul corpo dettati dal deterioramento indotto dalle droghe.
La cantante, nelle parole del regista che “l’ha conosciuta” dirigendo questo biopic su di lei: “C’era qualcosa di molto disturbato in lei, perché non si sentiva mai a suo agio nella propria pelle. Sembrava una specie di asessuata, ma in maniera strana. Era una donna bellissima, ma non era mai particolarmente sensuale. Ho visto e fatto in passato delle riprese con persone che hanno subito abusi sessuali infantili, e c’era qualcosa nei suoi modi che mi ricordava quel tipo di contrazione, un non essere a proprio agio nella fisicità”. La cosa non è stata contraddetta, anzi confermata, dalla sua strettissima collaboratrice e amica Mary Jones, che nel documentario fa riferimento a questa confessione che Whitney le avrebbe fatto, precisando come però non l’aveva mai voluto raccontare nemmeno alla madre, trattandosi di una violazione da parte della cugina, Dee Dee Warwick, sorella di Dionne. Questa è la differenza, radicale, che dà al documentario di Macdonald un passo diverso rispetto al precedente, altrimenti molto prossimo, seppur questa sequenza, cruda per il suo contenuto, non sia così ampiamente approfondita, forse anche per le poche, pochissime informazioni in possesso sulla questione.
Come Broomfield, anche Macdonald naturalmente parla poi di Bobby Brown, il grande amore di Whitney, il padre della sua unica figlia, Bobbi Kristina prematuramente scomparsa a ventidue anni (tre anni dopo la mamma). Lui, che è stato anche l’ennesimo complice nell’uso e abuso delle droghe, tema che proprio Brown nel film, palesemente scocciato per la domanda, si rifiuta di trattare, come se la cosa fosse un dettaglio. O forse per un distorto senso di (ir)responsabilità rispetto ad un epilogo definitivo e drammatico. Si accenna poi alla relazione d’amore e d’amicizia con la collaboratrice storica Robyn Crowford, per definire ulteriormente il profilo di Whitney, non gay per sua stessa ammissione, ma immersa nel flusso dell’amore e dell’amare; ancora, imprescindibile il riferimento al grande successo planetario del film The bodyguard (1992), di cui fu protagonista con Kevin Costner, che qui ricorda la cantante con le stesse parole di delicatezza e ammirazione di tutti i testimoni nel racconto (allo stesso identico modo che nel precedente doc).
Presente anche l’Italia in una breve sequenza del film, quella in cui un’amica di famiglia mostra una fotografia della luna di miele di Whitney Houston e Bobby Brown, trascorsa proprio nel nostro Paese, luogo anche del concepimento della figlia “Kissy”, come ricorda la signora.
L’epilogo del film come l’epilogo della vita: Whitney scompare l’11 febbraio 2012, trovata senza vita nella vasca da bagno della suite 434 del Beverly Hilton Hotel.
Il film, prodotto dal due volte premio Oscar Simon Chinn (per Man on Wire e Sugar Man) uscirà il prossimo 6 luglio negli Stati Uniti. In Italia con la BIM nella seconda parte dell’anno.
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