BERLINO – Dal concorso di Berlino 2024 arriva in sala il 27 marzo con Movies Inspired, Sons, un film durissimo e angosciante con una straordinaria protagonista, Sidse Babett Knudsen, impegnata in un percorso ambiguo e doloroso, insolito personaggio femminile dentro un prison movie (genere tipicamente maschile). L’attrice è Eva, guardia carceraria che all’inizio vediamo piena di buone intenzioni nel tentativo di migliorare le condizioni di vita dei detenuti portandoli verso la riabilitazione tra gentilezze e lezioni di yoga. Un giorno, però, arriva nel carcere il giovane detenuto Mikkel (Sebastian Bull) e viene portato nel braccio di massima sicurezza. E’ un tipo duro, imprevedibile, un autentico psicopatico, capace di uccidere per futili motivi, ma Eva sembra irresistibilmente interessata a lui e riesce a farsi trasferire in quel reparto, che è guidato dal collega Rami (Dar Salim). “Qui niente orecchini e niente distrazioni, in ogni momento può esplodere la violenza”, la avverte il nuovo capo. Lei non sembra spaventata per nulla e comincia a tiranneggiare il giovane carcerato con cui ha evidentemente un conto in sospeso. Gli nega le sigarette e arriva a mettere della droga nella sua cella per spedirlo in isolamento, insomma non esita di fronte a nulla.
Il regista Gustav Möller, già autore di The Guilty con cui aveva vinto il Premio del pubblico al Sundance, altra opera tutta giocata in un unico ambiente chiuso e angosciante, rinnova qui la trazione del prison movie con un lavoro che si concentra soprattutto sulla psicologia dei personaggi. La relazione tra Eva e Mikkel è infatti complessa, se non contorta, destinata a evolversi e cambiare nel corso della narrazione. Se inizialmente è lei a condurre il braccio di ferro con le vessazioni a cui Mikkel reagisce con furia omicida, nella seconda parte i ruoli cambiano e il ragazzo, avvolto in una calma innaturale e inquietante, inizia ad esercitare una sorta di potere emotivo sulla sua carceriera. Lo stesso regista riconosce un dualismo nella struttura del racconto. “E’ vero, c’è dualismo e ci sono tutte le contraddizioni della nostra società, che da un lato vuole riabilitare e reinserire i detenuti, ma dall’altro vuole sorvegliare e punire”.
Fin da subito Sons (figli, dunque specularmente anche madri) è stato scritto pensando a Sidse Babett Knudsen, vincitrice del BAFTA con Borgen, il cui volto segnato dalla sofferenza viene spesso inquadrato in lunghi primi piani. Ma un altro aspetto importante del film sono le geometrie del carcere, corridoi infiniti, luci gialle, porte blindate, inferriate, cortili angusti, un habitat che riflette immediatamente il senso di claustrofobia dei personaggi. “Mi piace lavorare in spazi ristretti, così come ho scelto di mostrare il personaggio di Eva solo in divisa e sul lavoro, mai nella vita privata o in un ambiente casalingo”, spiega ancora il regista. Che rivela il suo amore per il genere: “Sono attratto da codici precisi e rigorosi, regole e archetipi, e il prison movie li garantisce. Con gli archetipi e i cliché si può giocare e sovvertire le aspettative dello spettatore. Per me Sons è un prison movie al contrario. Eva è per molti versi l’opposto del protagonista classico di questi film, cioè il carcerato. Ma in un certo senso anche lei è in prigione, una prigione reale e metaforica”.
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