Risate e applausi a scena aperta hanno accolto al Festival di Roma Benur, tragi-commedia diretta da Massimo Andrei (Mater natura) presentata nella sezione Prospettive Italia. Distribuito da Movimento Film è tratto dalla commedia teatrale di Gianni Clementi, autore anche della sceneggiatura, e fonde le storie di vari disperati, brutti, sporchi e cattivi, che si arrabattano, all’ombra del Colosseo, per sbarcare il lunario. Sergio (Nicola Pistoia) è un ex stunt man bollito, che dopo essersi infortunato sul set di un film di guerra americano, si mantiene facendo il centurione ad uso dei turisti. Separato dalla moglie, vive con la sorella Maria (Elisabetta De Vito), che per arrotondare fa la centralinista erotica, mentre si accumulano bollette da pagare e conti in sospeso. Finché, improvvisamente, nella loro grama esistenza non compare Milan (Paolo Triestino), un immigrato bielorusso bravo in tutto – in patria era un ingegnere – che potrebbe cambiare la vita ai due fratelli. “La miseria non fa ridere quasi mai – spiega il regista – ma ho cercato di raccontarla mantenendo il tono esilarante ereditato dalla commedia teatrale. Ho pensato, con il dovuto rispetto, alle atmosfere di Totò in Miseria e nobiltà . Per la proiezione del film sono arrivati sul tappeto rosso anche alcuni “antichi romani” che fanno parte del Gruppo Storico Romano, associazione culturale a cui aderiscono persone di ogni ceto e professione, unite dalla passione della romanità che ogni anno organizzano il Natale di Roma (21 aprile) con la partecipazione di quasi duemila “rievocatori” che armati di elmi, scudi e spade, hanno messo in scena momenti di marcia e combattimento, con gran finale a testuggine.
Risate anche con Mental di P.J. Hogan, fuori concorso. La commedia – che Müller ha definito “un Mary Poppins lisergico” – segna il ritorno in patria dopo anni di successi negli States con film come Il matrimonio del mio migliore amico e I Love shopping e per il regista australiano è stata una boccata di aria fresca, ma anche un coraggioso ritorno all’infanzia. Nella piccola cittadina di Dolphin Heads, dove tutti ci tengono all’ordine e alla pulizia, la famiglia Moochmore è mal accetta. La mamma Shirley (Rebecca Gibney) canta The Sound of Music in giardino, il padre (Anthony LaPaglia) fa il sindaco, non ricorda neppure il nome delle figlie e se la fa con tutte le bionde in circolazione, le cinque figlie si sentono sbagliate, brutte e anormali. A rimettere a posto le cose ci penserà una babysitter sui generis, autostoppista con pitbull al seguito, anticonformista e tosta, pazza per davvero ma proprio perciò capace di dire a tutti quello che pensa (Toni Collette). “Solo a 25 anni ho capito che la mia era una famiglia disfunzionale e con il mio primo film, Le nozze di Muriel, sono riuscito a esprimerlo solo in parte”, ricorda il regista. “Quando avevo 12 anni mia madre ebbe un esaurimento e venne ricoverata. Mio padre, un politico locale, ci disse che era andata in vacanza e così fece sapere al mondo. Per accudirci prese davvero un’autostoppista con un cane al seguito, che si chiamava Shaz, proprio come il personaggio. Toni Collette, quando mi ha sentito raccontare questa storia qualche anno fa, mi ha detto che, se mai avessi fatto il film, avrebbe voluto interpretarla a tutti i costi. Shaz era pazza, però di lei ricordo ancora quello che mi disse, è meglio essere la pecora nera che una semplice pecora’”. E Hogan teorizza anche la necessità di ridere della malattia mentale. “Ho una sorella schizofrenica, un fratello bipolare e due figli autistici – racconta – e volevo che Mental fosse una commedia perché il sorriso è meglio dell’indifferenza. Bisogna essere politicamente scorretti, altrimenti si finisce per vergognarsene, come fanno quasi tutti e non parlarne affatto…”.
Dissacrante anche Valérie Donzelli in concorso con l’opera seconda Main dans la main. La regista e attrice francese pratica un cinema sorprendente, a volte anche troppo. E dopo il fortunato (e bellissimo) La guerra è dichiarata, che affrontava il tema della malattia di un figlio, ecco una storia di legami simbiotici in cui lei si ritaglia il ruolo minore della sorella del protagonista. Ad essere inseparabili sono invece la direttrice dell’accademia di danza dell’Opéra di Parigi (Valérie Lemercier), donna elegante, snob e molto sola, e un operaio della provincia con la passione per il ballo acrobatico (Jeremie Elkaim, ex marito della regista e protagonista anche del precedente). Al loro primo fortuito incontro, una forza misteriosa li incolla l’uno all’altra costringendoli a non separarsi mai, neppure quando dormono e imitarsi in tutto e per tutto passando, com’è d’uopo, dall’antipatia al bisogno reciproco. Come La guerra è dichiarata, di cui non ha la stessa forza e compiutezza narrativa, anche questo è un film in qualche modo autobiografico, come ci spiega la regista francese: “Parla del lutto, della separazione e della fusione, temi a me molto cari”.
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