Ha avuto la sua anteprima italiana al Pitigliani Kolno’a Festival di Roma Viviane, il film di Ronit e Shlomi Elkabetz che una coraggiosa distribuzione indipendente, Parthenos, porta nelle sale italiane dal 27 novembre.
Si tratta del terzo capitolo di una storia familiare che i due registi (fratello e sorella) hanno avviato con Prendere moglie nel 2004 e poi sviluppato con I sette giorni nel 2008. L’eccezionalità di questo racconto a più voci sulla libertà di una donna nell’Israele di oggi (ma la vicenda è ambientata tra gli anni ’80 e ’90) viene dalla fedeltà dei suoi interpreti: la bellissima Ronit Elkabetz è da sempre il volto di Viviane, mentre il grande attore israeliano Simon Abkarian interpreta ancora una volta il marito della donna e sono molti i personaggi che collegano tra loro i tre capitoli.
Presentato in anteprima mondiale all’ultimo festival di Cannes (Quinzaine des Réalisateurs), rappresenterà Israele alla prossima edizione dell’Oscar e ha già fatto razzia di premi nonostante i suoi autori siano stati spesso contestati in patria per posizioni ideologiche in netto contrasto con quelle del governo e anche in questo caso abbiano dato luogo a fiere polemiche da parte dei circoli più conservatori.
La protagonista Viviane ha deciso dopo tre anni di chiedere al marito il divorzio e per questo vuole andare davanti al giudice. In Israele però la rottura del matrimonio (anche se si tratta di un atto da codice civile) sottostà alla legge religiosa, l’unico giudice inappellabile è il tribunale rabbinico e c’è bisogno dell’assenso del maschio, senza il quale non si può procedere. Nel caso di Viviane, suo marito Elisha si oppone e trova connivenza nel’ambiguità del rabbino Shimon (Sasson Gabai). Sicché la battaglia legale di Viviane diventa la pietra dello scandalo per una società che si vuole moderna e civile, ma che poi rivela il suo lato confessionale e maschilista proprio negli atti civili che regolano la convivenza. Un fatto privato diviene uno scandalo pubblico. La battaglia tra maschio e femmina si consuma nell’aula di tribunale in cui si affrontano due idee di civiltà ormai inconciliabili.
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