Antropologi e tanatologi ci andrebbero a nozze, con film come Final Destination e progenie, se solo, dall’alto delle loro cattedre, si abbassassero ad andarli a vedere.
Perché la spettacolarizzazione mediatica della morte, che è tra gli oggetti più gettonati dei loro studi, è anche il motore attorno al quale ruota la serie di pellicole del fortunato franchise, cominciato ormai dieci anni fa con il capostipite del 2000 e giunto oggi al quarto capitolo, girato con le nuove tecnologie 3D, in uscita in Italia il 21 maggio. Allora c’era quanto meno uno spunto originale: su un impianto da slasher movie – quei film in cui un assassino fa fuori con metodi sempre più cruenti decine e decine di vittime, possibilmente adolescenti e ignude – si inseriva il costrutto fatalistico, per cui il killer non è un brutto ceffo come il Freddy Krueger di Nightmare o il Jason Voorhees di Venerdì 13, ma la Morte stessa, con la M maiuscola. Difficile sfuggirle.
Il canovaccio non è poi più cambiato per i seguiti e non cambia nemmeno stavolta: un gruppo di giovani sopravvissuti per miracolo – e grazie alle doti di chiaroveggenza di uno di loro – a un incidente catastrofico, incontra nel corso del film il proprio tragico destino, morendo nei modi più assurdi e grandguignoleschi possibili: si va da sassate che cavano fuori gli occhi dalle orbite, a pezzi di lamiera che tranciano in due i corpi, passando per una ragazza triturata in una scala mobile e un tizio aspirato dalle tubature di una piscina, con tutte le poco gradevoli conseguenze del caso.
Insomma, lo splatter abbonda, ma anche l’ironia, dato che i grotteschi decessi sono accompagnati spesso e volentieri da frasi a effetto come “Non perdiamo la testa!”, abbinata naturalmente a una violenta decapitazione.
La tragedia è così sublimata in un’atmosfera da cartone animato che ricorda più le “tranvate” prese da Gatto Silvestro e Wile E. Coyote all’inseguimento delle loro prede che i classici horror dove si muore “per davvero”.
Il gioco è dunque, per i sadici autori, semplicemente quello di inventare trapassi sempre più articolati e scenografici per i propri sventurati protagonisti, e per gli altrettanto sadici fan della serie quello di indovinare come morirà e quanto si farà male il cretino di turno.
Non conta dunque quanto impersonale risulti la regia di David R.Ellis e quanto marginali gli interpreti – se si esclude qualche generosa inquadratura di glutei femminili e bicipiti maschili – ma l’effetto esorcizzante/consolatorio è garantito: tutti, prima o poi, dobbiamo morire, ma è davvero improbabile che ci capiti di farlo in quel modo!
La morte, quella vera, con cui ognuno suo malgrado deve confrontarsi, viene decostruita e rimessa su in una giostra mirabolante – il parallelismo si faceva evidente in Final Destination 3, dove l’incidente che scatenava gli eventi avveniva proprio su un ottovolante – qui resa ancora più pittoresca dall’effetto 3D.
Non male, in questo senso, il pre – finale metacinematografico, ambientato in una sala dove si proietta un film tridimensionale. Ma noi non possiamo condividerne la visione con i protagonisti: quello che loro vedono in 3D, per i nostri occhialini sono solo immagini sfocate.
Come oscuri presagi di morte.
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