Vincent Lindon, senza perdere la dignità

L'attore è bravissimo nel ruolo di un operaio disoccupato in La loi du marché di Stéphane Brizé, ritratto senza fronzoli della società contemporanea, tra precarietà e guerra tra poveri


CANNES – Come un pugile alle corde in un mondo dove le leggi del mercato sono più forti di tutto. Vincent Lindon è il protagonista assoluto di La loi du marché, il film del francese Stéphane Brizé in concorso a Cannes. L’attore di Welcome e Femme de chambre è Thierry, un operaio cinquantenne che ha perso il lavoro dopo venticinque anni passati nella stessa azienda, non perché lavorasse male, ma semplicemente perché bisognava alzare i profitti. Buon padre di famiglia, con un ragazzo disabile di cui si prende cura, e marito affettuoso, ce la sta mettendo tutta per rimettersi in sella: disilluso dal sindacato, frequenta corsi di aggiornamento che si rivelano inutili (perché nessuno vuole un operaio edile che non ha mai lavorato nell’edilizia), stage motivazionali che minano ancor più la sua autostima già traballante, colloqui di lavoro via skype dove il primo arrivato è pronto a criticare il modo in cui ha compilato il cv e lo riempie di domande non pertinenti salvo poi annunciare che non lo assumerà mai. Senza fronzoli, anzi con uno stile volutamente secco e documentaristico, Brizé ci immerge fino al collo nell’emergenza-lavoro contemporanea, dove i licenziamenti sono lo strumento per aumentare i guadagni di pochi e abbassare i salari di molti. Un Lindon da premio è l’unico professionista in un cast interamente composto di gente vera e spesso nello stesso ruolo che ricopre nella vita. Troupe minima, low budget, 21 giorni di riprese, videocamera digitale, niente illuminazione artificiale, niente make up. “Quando giro un film – spiega il regista, che con Lindon ha lavorato anche nei suoi due precedenti – cerco di rappresentare la realtà nel modo più fedele possibile, cerco la verità. Anche per questo ho scelto volutamente il confronto tra un grande attore e non attori”. 

Un progetto coerente in cui regista, protagonista e produttore (Christophe Rossignon) hanno rinunciato a una parte dei compensi per poter pagare la troupe alle tariffe sindacali. In molti sensi un film politico anche se all’autore questa sembra una definizione un po’ stretta: “Si tratta solo di raccontare un uomo che dopo 25 anni di lavoro in un’azienda viene mandato via perché i padroni hanno deciso di trasferire la fabbrica da un’altra parte. Non lo cacciano perché lavora male, ma solo perché vogliono guadagnare di più. Thierry dà un volto a una realtà astratta, i movimenti finanziari di cui abbiamo notizia tutti i giorni e il tasso di disoccupazione”.

Ma il film, pur soffermandosi nella prima parte sulle difficoltà che quest’uomo deve affrontare per sbarcare il lunario e risalire la china, costretto a chiedere un piccolo mutuo in banca per pagare gli studi al figlio o per acquistare un’auto usata, deciso e a vendere il bungalow dove hanno da sempre passato le vacanze estive per racimolare un gruzzolo, affonda infine le unghie nell’argomento più spinoso, quello della guerra tra poveri. Sì, perché Thierry trova alla fine lavoro come sorvegliante in un ipermercato. Addetto a sventare i piccoli furti di cibo o dvd, deve anche passare al setaccio l’operato delle cassiere perché la proprietà ha bisogno di tagliare il personale e prende a pretesto proprio qualche illecito minore per licenziare. Ed è qui che il personaggio viene messo di fronte a un dilemma morale degno del cinema di Ken Loach o dei Dardenne. 

Una prova straordinaria, fatta di sguardi, di movimenti delle spalle, di rabbia repressa e congelata, per il 55 enne Lindon, nato in una famiglia nell’alta borghesia e cresciuto tra intellettuali di sinistra: “Il regista non vuole convincere nessuno, ma chi ha visto il film dice di essersi ricordato di essere di sinistra. La loi du marché parla in effetti della dignità di classe”. Non è d’accordo invece l’attore sul fatto che in questa edizione del Festival di Cannes ci siano pochi film d’impegno: “Frémaux ha mostrato coraggio. Basti pensare al film d’apertura La tete haute o a quello di Jacques Audiard (che vedremo tra due giorni e che parla di immigrazione, ndr). E questa è una buona cosa. La mia idea personale di cinema – conclude – è che i film che davvero restano nella storia del cinema sono quelli che raccontano il sociale. Basti pensare a Chaplin, a Lubitsch e ai fratelli Dardenne“.

E chiaramente i Dardenne sono tra i modelli del regista, che tuttavia stempera in molti momenti il fosco dramma sociale con elementi di commedia, specie nel ritratto che potrebbe sfiorare la caricatura dei funzionari del collocamento o dei sorveglianti del supermercato sempre attaccati alle videocamere a circuito chiuso. “In realtà – spiega Brizé – nella mia ricerca non ho mai incontrato delle caricature, ma uomini e donne normali e anche simpatici. Nessuno è davvero cattivo, ma ognuno nel suo ruolo, anche involontariamente, partecipa alla violenza del nostro mondo. E proprio perché lo osserviamo per un certo tempo da vicino, ci rendiamo conto che non c’è scelta”.  

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