“La concentrazione iniziale era fissata sull’interpretazione, da lì ho seguito l’idea di ridurre il tutto a quella, con strumenti semplici; ho ripensato al film di Steven Knight, Locke, e ho letto la sceneggiatura stabilendo un rapporto col testo: penso il cinema sia un’arte matura, penso che ci siano momenti in cui certe cose possano essere riprese e rimesse in scena”, così nasce Le choix di Joseph Cross di Gilles Bourdos, con un indiscutibile Vincent Lindon, unico attore in scena per tutta la durata della vicenda, ambientata in una macchina in corsa sull’autostrada verso Parigi, di notte.
Un cantiere. Un uomo che smonta dal turno, o così sembra. Sale in macchina e il film comincia appena lui imbocca la strada: il regista spiega che “fra i vari motivi per cui ho deciso di fare questo film c’è stato l’inizio di Roma di Fellini, sull’autostrada, un momento feticcio del cinema per me: un condensato puro di sensazioni, per cui qui volevo ritrovare quella della strada…”.
La voce, i neon, l’asfalto, Joseph (Vincent Lindon). Oppure, i neon, Joseph, la voce, l’asfalto. Comunque li si voglia mettere in ordine, questi sono gli elementi vivi del film, la tragedia di un uomo chiuso in una bolla di vetro, o in una pancia di lamiera, quale la vettura è d’altronde, che però dimostra come qualsiasi cosa ci possa raggiungere… E’ stata un’esperienza estrema per Vincent Lindon, per cui “la cosa che mi ha appassionato è che si tratti di un prototipo: è la prima volta che recito con persone che non vedo; la prima volta in cui mi rendo conto dell’importanza della voce. Io sono solo in scena e quando mi sono reso davvero conto di essere solo al mondo ho passato il tempo del film a pregare per me e per il personaggio, dicendo ‘speriamo che la tensione tenga’, e in effetti… avevo da guidare, era notte, c’erano le voci degli altri attori che arrivavano senza avere dei corpi davanti a me, e così ho dimenticato di recitare… reagendo simultaneamente a quello che mi veniva detto al telefono: ho dimenticato fossero attori, era come essere con persone, in un luogo molto reale, ero immerso; è stato appassionante. Le cose sono state diverse dal solito, eppure è un film a tutti gli effetti: usare questo filtro che non conoscevo è stato appassionante, ma ho avuto tanta paura perché ero solo, ma dovevo funzionare, non avevo altre soluzioni. È stato un salto vertiginoso nel vuoto: sono fiero del risultato, non mi aspettavo uscisse così giusto e essenziale. Ringrazio la regia di Gilles, che girava intorno a me come un animale ingabbiato: eravamo tutti molto concentrati, lui, io, il direttore della fotografia, era come una missione dei Marines, senza complimenti reciproci, siamo stati come un esercito”.
Cosa spinge un uomo di mezza età, professionista affermato, con una famiglia stabile – due figli, una moglie – a lasciare senza scrupoli il proprio cantiere, lì dove sta per prendere vita “la colata del secolo”, ovvero la costruzione di una torre di cemento, di cui lui è responsabile, e che di lì a poche ore bloccherà un intero quartiere cittadino, per ambire poi a svettare, fiera architettura e manifattura dell’uomo? Un altro essere umano, è la risposta al “cosa”: un bambino che sta per nascere, e per cui suo padre, Joseph Cross, vuole assumersi le sue responsabilità, al contrario del proprio di padre, come s’intuisce dal dialogo virtuale tra il personaggio di Lindon e il genitore assente. Però, perché c’è un “però” ed è “la scelta” del titolo del film, questo bebé non è frutto dell’amore con Cathrine, mamma dei suoi Lucas e Simon, ma figlio di un’unica notte con Béatrice, assistente di Cross per un periodo parigino, tre mesi di trasferta. Lui non nutre un sentimento per lei, che lo supplica, ma non ha dubbi: “darò il mio nome al bambino” e quella torre di cui ha abbandonato “la nascita”, affidandola a un collaboratore, incorrendo nel licenziamento certo, non è altro che la metafora della vicenda e della vita; la torre, simbolo di verticalità, di crescita dunque, è fatta di cemento, materiale sempiterno e granitico, come il rapporto ombelicale con un padre, che però, se non miscelato correttamente dal principio, vittima di crepe, prima, e certo di crollo, poi.
Joseph Cross, in quell’ora che separa il cantiere dall’ospedale in cui la mamma del suo bambino è in travaglio, ha una “lista” di persone con cui parlare, a cui dire cose le più diametralmente opposte, così si alternano, a più riprese, le voci di Damien, il collaboratore insicuro ma capace, quella di Cathrine, moglie a cui dire la verità, quella di Gabriel, portavoce del committente del progetto edilizio, quella di Béatrice, fragile e provata, quella dei figli che l’aspettano per guardare insieme la partita di calcio, quella dell’addetto del comune che deve dare il via libera alla chiusura delle strade per permettere la colata, quella assente del padre di Joseph, con cui lui parla perentorio e ferito, e così via, una dietro l’altra, in una tessitura che diventa mélange, che intreccia timbri che sono specchio delle emozioni, con lui – Joseph Cross – capace di mantenere una lucidità ammirevole e commovente nonostante la circostanza stringente, emotivamente stressante, personalmente sconquassante, ma – senza dubbio alcuno – indirizzata sulla strada per lui indiscutibilmente giusta per la sua integrità di essere umano.
“Nella mia vita di attore, il mio scopo è che chi va al cinema possa dire: ‘lui sono io’, mi piace essere vicino alle preoccupazioni o ai convincimenti delle persone; mi piace essere vicino alla realtà”, spiega Lindon, per cui “questo personaggio è un sogno: non è il primo ad avere una storia nascosta, per cui deve poi prendere una decisione; quando succede, la persona con cui viviamo ci chiede di spiegarci, e a volte si è vigliacchi, a volte si vuole conservare, e il futuro può essere molto pericoloso; sono cose accadute a molti e che mi appassionano perché si avvicinano alla gente comune, creando qualcosa di universale. Nessuno dei tre – Catherine, Béatrice, Joseph – avrebbe torto se facesse una scelta diversa: non giudico il mio personaggio, la decisione che prende mi piace ma se fosse stata un’altra non lo giudicherei, se fatta in condizioni di dignità. L’unica mia passione nella vita sono le persone; i selfie non mi piacciono, piuttosto chiacchieriamo cinque minuti e i ricordi li mantieni con il cuore e con la testa. L’essere umano è la mia unica passione: scelgo personaggi che possa far coincidere con la vita reale, tutti i personaggi Marvel mi annoierebbero perché non troverei il punto d’ingresso nel personaggio: non dico non siano una cosa bella, ma non mi interessa”.
Per Bourdos, “nella sceneggiatura di Knight c’è una straordinaria tensione da thriller: uno dei motivi per cui ho fatto il film è l’incapacità di rispondere a questa domanda: cosa avrei fatto io? Mi interessano le contraddizioni o le cose impossibili con cui ci scontriamo; mi interessa lo spettatore che esce dal cinema e si chiede: ‘cosa avrei fatto?’” e poi il regista spiega anche la costruzione di questo set fatto di una sola persona in scena e dentro/intorno a una macchina, per cui “la prima volta abbiamo girato davvero in autostrada, col vero traffico, cosa complessa e pericolosa per Vincent che doveva guidare e recitare al telefono. Si girava di notte, alcuni attori erano con me in una macchina davanti alla sua, altre volte restavano a casa. Dapprima abbiamo fatto così, poi in studio abbiamo cercato inquadrature precise su Vincent, con una intensità di recitazione incredibile. Lui ha recitato per 20/25 minuti al giorno: abbiamo girato cinque notti, più due sulla strada, senza Vincent; l’abbiamo fatto per conservatore il lato compatto e reale del film”, in uscita prossimamente nelle sale italiane con Wanted.
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