VENEZIA – “La libertà non ha prezzo ma ha un costo”. E’ una delle battute chiave di Un autre monde, nuovo film del francese Stéphane Brizé in concorso alla Mostra e distribuito in Italia da Movies Inspired. Protagonista ancora una volta Vincent Lindon, attore molto amato dal cineasta che l’ha diretto sia in La legge del mercato che nel successivo In guerra.
Qui è Philippe Lemesle, un manager di successo che ha però una vita privata fallimentare: sua moglie (Sandrine Kiberlain), pur amandolo, vuole il divorzio perché sono anni che lui non porta a casa nient’altro che le sue angosce lavorative, mentre il figlio minore ha appena avuto un crollo nervoso ed è ricoverato in clinica psichiatrica. “Questo personaggio – spiega il regista – si muove tra i vincenti della società, nell’ambiente dei dirigenti d’azienda, della meritocrazia, tra le cosiddette ‘storie di successo’. Come si può ammettere di provare dolore, di essersi perduti, quando si è parte dell’élite? Lamentarsi apparirebbe vergognoso agli occhi di chi vive in condizioni meno agiate, e un segno di debolezza imperdonabile agli occhi suoi e di quelli come lui. In un mondo simile non si può – non si deve – essere deboli. È vietato, per non correre il rischio di umiliarsi ed essere sostituiti da un altro più giovane e dinamico, o da qualcuno che non metterà in discussione quello che gli si richiede di fare. In un mondo simile sembra che non si possa più godere del diritto di contestare ordini che vengono dall’alto e che in fretta devono essere imposti in basso”.
Lemesle è il direttore di uno stabilimento industriale (producono elettrodomestici), che dipende da una multinazionale con base negli States e sedi in tutta Europa. L’azienda è in attivo ma gli azionisti alzano sempre più la posta della produttività e dei profitti e quindi si chiede un taglio del 10% del personale in tempi brevissimi: è una specie di roulette russa perché si deve licenziare personale tutt’altro che improduttivo, anzi spesso essenziale anche per la sicurezza degli impianti e dei lavoratori. Un sindacalista agguerrito e appena andato in pensione e i vertici pensano che il gioco sia facile. Ma stavolta Lemesle non ci sta. Forse proprio a causa della crisi personale che sta attraversando, mette in discussione questo metodo e propone un’alternativa: perché non rinunciare al bonus dei dirigenti, perché non tagliare qualche margine di profitto salvando posti di lavoro e guardando al futuro anziché spremere i dipendenti fino alla morte?
“In questo film – dice Brizé – si può vedere una sorta di ‘controcampo’ del precedente In guerra. Lì c’era un sindacalista in azione, qui invece un dirigente che ha il compito di far sparire, licenziare parecchi operai per salvare la sua posizione. Cerco di stare fuori dalla facile dialettica semplicistica tra buono e cattivo e vedere che dietro ogni persona c’è sempre il sistema e dietro il sistema c’è una grande sofferenza che riguarda tutti, anche chi guadagna tanto ed è pieno di privilegi”.
Lindon si arrabbia quasi quando qualcuno suggerisce che questo film componga una trilogia con i precedenti. “Odio questa parola, è una parola abusata, per me restano tre opere molto diverse tra loro. Questo film fa capire come le persone possano essere prese dalla spirale del sistema che rompe ogni cosa compreso il rapporto coniugale. La parte che riguarda la vita privata del personaggio è importantissima, mentre nei film precedenti non lo era così tanto, qui vediamo arrivare al punto di rottura un uomo che ha consacrato la sua vita alla carriera sacrificando la sua famiglia. Inoltre per In guerra lavoravo con attori non professionisti, mentre qui sono circondato di veri attori”.
“Come recito? Lo faccio in maniera istintiva – dice Sandrine Kiberlain, che è stata sposata con Lindon da cui ha avuto una figlia, Suzanne – Il mio personaggio è molto importante, perché ha il coraggio di lasciare un uomo che ama, una volta che capisce che quella è la scelta giusta. In questo modo lo aiuta ad aprire gli occhi. Lei si trova sull’orlo del precipizio e dice a un certo punto: io mi fermo”.
“Non sono un intellettuale – aggiunge Brizé – e non mi sono documentato chissà quanto e come. Volevo mostrare un mondo che mi sembra disfunzionale, mettere in scena uomini e donne, comprendere meglio possibile come questo mondo dell’impresa, in una multinazionale, si comporti verso uomini e donne. Un manager dice al protagonista che il coraggio è fare cose che non si ha voglia di fare, ma questa versione è molto colpevolizzante, secondo me il coraggio è saper uscire dalle situazioni che non ci corrispondono più”.
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