Onirico, surreale, spiazzante. Com’è sempre Davide Manuli che dal 13 giugno (in 10 copie) ritorna sul grande schermo con La leggenda di Kaspar Hauser. Un film che, come sottolinea lo stesso regista costituisce il proseguimento ideale di Beket, il suo lavoro precedente, e che quindi prosegue il discorso sull’assurdità dell’esistenza passando questa volta attraverso la questione dell’incomunicabilità umana: “Al giorno d’oggi nulla sembra più avere un senso e la leggenda di Kaspar Hauser, che all’inizio dell’Ottocento venne ritrovato nel mezzo di una piazza di Norimberga dopo aver vissuto 16 anni in solitudine chiuso in una cella, mi sembrava la metafora giusta per raccontare la società odierna. “Un posto – interviene Fabrizi Gifuni, uno degli interpreti principali, – in cui ormai se l’individuo non si mette davvero in gioco è morto senza sapere di esserlo”. Ma gli elementi di congiunzione fra i due film sono diversi e numerosi, a partire dalla scelta della Sardegna come non luogo dell’azione, dove per Manuli emerge “una natura desolata e desolante in cui il paesaggio prende posto fra i protagonisti della storia” per arrivare al bianco e nero, alle ottiche larghe ai piani sequenza e ai pochissimi personaggi che vivono completamente alienati rispetto alla realtà che li circonda: la Granduchessa Claudia Gerini, l’attore americano Vincent Gallo nel doppio ruolo di sceriffo e pusher, la Veggente che ha il volto di Elisa Sednaoui e appunto Fabrizio Gifuni che, nei panni di un prete ha la responsabilità del ruolo più importante. È lui, infatti, a dire tutto quello che non viene detto dagli altri personaggi e che si fa portavoce di un messaggio spirituale ma slegato dalla religione, dando a Kaspar una valore quasi cristologico.
Gifuni si lancia così per tutto il film in lunghi monologhi pensati per lui dallo scrittore Giuseppe Genna e recitati in una sorta di dialetto pugliese che stridendo con l’inglese e l’italiano parlato dagli altri personaggi aumenta il senso di straniamento. “Non ho un metodo per tutti i personaggi che interpreto – spiega Giufuni – ma qui più che altrove ho dovuto cercare una chiave diversa per inventarmi qualcosa che potesse andare nella direzione del film. Sono stato io a suggerire a Manuli di collaborare con Genna. Mi sembravano due navicelle che volavano nello stesso cielo ma non si erano mai incontrate”. Oguno dunque chiuso nella propria ambiguità, nella propria solitudine, in un solipsismo insuperabile che l’arrivo di Kaspar, che tra l’altro è interpretato da una donna, una sorta di Tiresia moderna, aiuta solamente a far emergere. “Erano anni che pensavo a questo film e fino a pochi mesi prima delle riprese avevo sempre creduto che ad interpretare questa parte sarebbe stato un ragazzo. Avevo anche in mente chi: un contorsionista russo che per via di una serie di problemi però non siamo riusciti ad ottenere. Così dopo tanto tempo mi sono ricordato di Silvia Calderoni, una performer straordinaria che avevo visto recitare completamente nuda molti anni prima nello spettacolo teatrale Paesaggio con fratello rotto. L’ho contattata e dopo una chiacchierata insieme ci siamo fidati l’uno dell’altra”.
Quella di Silvia Calderoni si sposa inoltre con un’altra scelta importante, quella relativa alla colonna sonora, altra protagonista del film, che qui è affidata al talento di Vitalic, il famoso compositore di musica elettronica parigino. “Ho scoperto l’elettronica abbastanza tardi ma è stata una rivelazione perché quello è un mondo in cui si può rimanere risucchiati, proprio come in Kaspar Hauser, e in cui si può venire a contatto con dei veri e propri Mozart. Nel film, tra l’altro, questa musica fatta di vibrazioni è l’unico modo vero di comunicare che hanno lo sceriffo e Kaspar, gli unici due personaggi che riescono in fondo a stabilire un contatto”. “A me non interessava ricostruire la storia di Kaspar Hauser in maniera letterale, l’aveva già fatto straordinariamente Werner Herzog – aggiunge Manuli – quindi la mia partenza è stata steineriana, per continuare sulla via di un minimalismo che porta ad un tipo di cinema che io definisco retrò-futurista, fatto di contaminazioni fra il cinema degli anni ’60 (il lungometraggio è stato non a caso girato in pellicola) e quello contemporaneo”. E Vincent Gallo? “Lui è un attore eccezionale – spiega Manuli – che quando crea dei conflitti lo fa solo per il bene del film. È ossessivo, fanatico, paranoico, proprio come me; ma d’altronde siamo nati lo stesso giorno! E secondo me fra tutti gli attori americani è quello che ha più tensione artistica, proprio perché lui fa mille cose e non è solo un attore”. Manuli sottolinea inoltre che per ora il paese in cui si sta preparando al meglio l’uscita del film è la Francia (intanto ha già girato oltre 40 festival internazionali, vincendo vari premi ed é stato venduto in Russia, Gran Bretagna, Germania, Polonia): “Per loro è un film commerciale grazie alla presenza prima di tutto di un attore come Vincent Gallo e poi della loro star, Vitalic. Lì uscirà in 50 copie a settembre ed è percepito come una pellicola commerciale che punta a fare grandi incassi. Mi piacerebbe fosse stato così anche per l’Italia, ma qui sono ancora etichettato come un regista di nicchia. Credo invece che di questo film si parlerà molto, molto più di tanti altri film di cui sulla carta si dovrebbe parlare ma che stiamo già dimenticando”.
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