L’uomo dei pinguini è tornato. Sulle spalle oltre 30 anni passati tra i ghiacci, nelle regioni polari, luoghi in cui ha coltivato e valorizzato prima il suo talento da biologo e poi quello da cineasta. A quasi vent’anni dal premio Oscar per La marcia dei pinguini, il regista francese Luc Jacquet ci regala un nuovo documentario, Viaggio al Polo Sud, in arrivo nelle sale dal 13 giugno 2024.
A differenza dei due precedenti film sui pinguini pensati per un pubblico di famiglie – e doppiati per questo in italiano da Fiorello e Pif – questo nuovo documentario è una sorta di testamento artistico pregno di poesia e malinconia. Superati i 55 anni, Jacquet si chiede quanti altri viaggi gli restano da vivere, e qualcosa di “intimo” lo spinge a intraprendere per l’ennesima volta il tribolato percorso verso il continente australe, inesorabilmente attratto dal magnetismo del luogo più freddo, ignoto, desolato e misterioso del Globo.
Una voce narrante pacata e meditabonda ci accompagna in tutte le tappe di questa placida avventura, dalle foreste del Sud America a Capo Horn, passando dalle distese infinite dell’oceano, fino alla banchisa, che “custodisce le chiavi del settimo continente”. Un luogo in cui l’uomo può far poco, se non procedere con prudenza e rispetto, nella consapevolezza dei tanti esploratori che nei secoli si sono arresi ai suoi ghiacci. Il regista/protagonista nasconde il suo volto, si fa inquadrare spesso di spalle, in silhouette, da lontano, fuori fuoco: non è lui il soggetto del film, piuttosto è un filtro per interpretare il senso di questi paesaggi attorno ai quali costruire se stessi.
C’è poi la scelta del bianco e nero, tanto vistosa – trattandosi di un documentario – quanto inevitabile, riuscendo a sottolineare la maestosità di paesaggi in cui questi due colori sono una costante assoluta. Il bianco della neve, il nero delle rocce, che ritornano inesorabilmente sulle piume e sulle pellicce di tutti gli animali, inclusi gli amati pinguini, audaci e teneri compagni di tante avventure. L’intento, d’altronde, non è quello naturalistico e nei brevi istanti in cui il colore, inaspettatamente, sopraggiunge, le sfumature di blu riempiono gli occhi e l’anima, lasciandoci stupefatti.
Le musiche, in questa tessitura autoriale, riescono a valorizzare il respiro del ghiaccio, in un’alternanza di silenzi prolungati e densi, suoni naturali rilassanti al limite dell’ASMR e musiche che sanno quando entrare, con discrezione, enfatizzando solo ciò può suscitare emozioni sincere. Guardando Viaggio al Polo Sud, il tempo si dilata e si entra in quello stato di contemplazione che rende questa fuga dalla civiltà tanto necessaria per il suo autore.
Con una sensibilità autoriale rara, Jacquet ci restituisce il senso dell’avventura verso l’ignoto, l’esaltazione e le attese, lo spirito della scoperta e il rispetto per una natura incontaminata che si vorrebbe preservare il più possibile. Un lungo e commosso saluto – forse un addio – al luogo che lo ha accolto e formato, regalandogli gli onori più alti a cui un cineasta può ambire e, soprattutto, le emozioni più pure che un uomo possa sperare di provare.
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