Due esistenze interconnesse – l’undicenne/trentenne Vera e il cileno Elias – nel mistero dell’universo, come due stelle indissolubilmente correlate dalla luce, in una dimensione tanto fantastica, quanto pragmatica, in bilico tra vita e morte, tra costa ligure e deserto cileno.
“L’idea parte da una domanda che si fa l’uomo da millenni: cosa ci sia di ignoto e invisibile; raccontando la storia di Vera credo siamo riusciti ad andare vicini all’invisibile. Sono un appassionato di fantascienza e volevo raccontare una storia di fantascienza senza dichiararlo: volevo affrontare una storia fantastica e impossibile con lo stile il più realistico possibile, quello quasi documentaristico, ed è stato un partito preso sin dall’inizio, ‘giriamolo come se fosse un doc’ abbiamo detto, senza nessun orpello; più era forte il fantastico e più era importante girarlo in modo semplice”, spiega Beniamino Catena, regista di Vera de Verdad, Fuori Concorso al TFF.
Un caso inspiegabile e un mantra: “dove c’è fuoco”, più volte ripetuto da Vera, laddove fuoco è luce, ovvero sole, e il sole è una stella; la storia di Vera de Verdad, comincia il 9 settembre 2019 – il regista è nato il 9/9 – con una voce fuori campo, quella di lei bambina, appassionata di astronomia, che poco dopo guardiamo, prima seduta in macchina – con Claudio (Davide Iacopini), amico di famiglia, mentre stringe tra le mani una scatolina con le ceneri del suo cagnolino – poi in piedi al picco di una scogliera, da cui farà volare nell’aria, nel mare, “la polvere” del cucciolo: il montaggio parallelo permette – al contempo – di essere anche in una piana desolata, il deserto cileno di Atacama, “fiorita” di radiotelescopi bianchi, molto ventosa, poco ossigenata, tanto che un uomo, un addetto del sito astronomico, Elias (Marcelo Alonso), si sente male, cade a terra, muore, per poi rinvenire in ambulanza, all’improvviso, mentre lei, Vera – dall’apice della scogliera – sussurra, appunto, “dove c’è fuoco”, per poi sparire, come improvvisamente dissolta, lasciando solo il ricordo delle parole che aveva detto poco prima all’amico, mostrandogli un suo disegno: “…due stelle in collisione, sono lontane 2000 anni luce e si scontreranno nel 2022”.
“La difficoltà per il bellissimo personaggio c’è stata, è stato complicato: Vera scompare bambina, torna nel corpo di una donna di trent’anni, con lo spirito della bimba, quindi la sfida era trovare l’equilibrio; la sensibilità doveva essere quella di una bambina, seppur lei già a 11 anni sia capace di guardare la vita con un’emotività avanzata, evoluta; poi, una sfida è stata anche vivere una vita adulta in un tempo molto breve: in pochissime scene lei diventa sé alla fine della vita. La difficoltà era dare i diversi stati di conoscenza e consapevolezza della vita”, spiega Marta Gastini, immersa con eccellenza in un ruolo che è più ruoli, e tutti delicatissimi, quello di figlia bambina, di figlia adulta, di scomparsa, di un’entità che potrebbe essere aliena, che probabilmente è magica, fantastica, quanto fatta di carne e ossa umani che pulsano e vibrano senza dubbio alcuno.
“Tutto ciò che riguardava fantastico e fantascienza doveva rimanere un po’ sul fondo, dovevano essere un po’ ibridi, perché il film passa attraverso più generi, è un po’ un freak, come lo è Vera, e ci interessava raccontare senza troppe spiegazioni e tante parole, perché si tratta di cose non facilmente spiegabili”, specifica l’autore.
Beniamino Catena sceglie – spesso – inquadrature dall’alto, verticali, e molto verticali, forse come metafora di qualcosa che osserva “sopra”, “oltre” la vita umana: lo fa per osservare la città in cui vive la bambina, così la scogliera vertiginosa da cui scompare, ma anche la macchina di Elias che attraversa solitaria il deserto; è ricorrente il silenzio, pochissime sono le parole nel film, tutto o quasi è affidato alla suggestione delle sensazioni, visive, sonore. “La Liguria, l’ho scelta perché ci abito, ho girato praticamente a casa mia: il promontorio di Punta Crena lo trovo bellissimo; dall’altra parte ho scelto Atacama, il miglior luogo al mondo per osservare le stelle: era perfetto localizzare lì il desiderio di Vera, vedere le stelle a occhio nudo. Poi, l’aspetto musicale era fondamentale e ho pensato subito ai Marlene Kunz, con loro girammo il clip di A fior di pelle, proprio in un deserto, il Sinai: ho pensato il film potesse essere congeniale alla loro musica, anche se qui tutta strumentale, ma le loro chitarre sono perfette per i grandi spazi, come le note più intime e minimaliste lo sono per la Liguria”.
La Regione che Elias decide di raggiungere, dopo essere “rinvenuto” e aver errato nel deserto, posto misterioso e contemplativo al contempo, con i suoi suoni dietetici del vuoto e dell’arcano, tra i toni caldi della sabbia e quelli blu intensi della notte desertica. È come se lui percepisse degli echi vocali, che appartengono a Vera, così giunge da una sensitiva a cui riferisce che un “fantasma bianco” lo perseguita, non sa se sia reale o della sua immaginazione. Poco dopo, indagando da solo, scopre che una bambina, Vera Melis, è scomparsa: Elias si reca dal deserto alla scogliera ligure, luogo in cui intercetta dettagli fondamentali. Ed è qui che una Venere (Marta Gastini) androgina e nuda emerge dalle acque e vaga nello spazio urbano, fino a casa, in cui incontra il padre (Paolo Pierobon), lui non la riconosce, però la accompagna in ospedale, lì l’accoglie una dottoressa, la madre – Anita Caprioli: “Quando Beniamino mi ha raccontato questa storia sono rimasta molto colpita perché racconta qualcosa che ci appartiene ma raramente viene raccontato: la madre in particolare vive la prima perdita con un dolore inspiegabile, ma anche il desiderio di voler riempire quel vuoto, e il fatto che lei riconosca Vera – al ritorno, adulta – non è cosa tangibile ma ha qualcosa a che fare con lo stato istintivo della maternità, qualcosa di ancestrale; la seconda perdita accade quando la figlia torna ma lei capisce che la riperderà, cosa che accetterà seppur sia un dolore profondo: capisce che non può che lasciarla andare; mi è piaciuto il racconto molto viscerale della madre”.
“È stata una bella possibilità quella di lavorare profondamente con Anita, che è come il suo personaggio: accogliente, sensibile; non abbiamo avuto necessità, come i personaggi, di usare troppe parole: io mi sono sentita di affidarmi in modo naturale a lei”, aggiunge Marta Gastini del ruolo/rapporto tra Vera e la figura materna.
Vera de Verdad è un un racconto circolare sospeso tra il qui e l’altrove, in quella dimensione d’energie certe ma non spiegabili, un’opera forse un po’ troppo diluita nella narrazione e nei concetti, ma comunque coerente con la propria essenza distopica.
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