TORINO – Ridere per non piangere. È un modo di dire ed è un po’ quello che capita a Carolina, giovane vedova di un operaio morto in un’esplosione in fabbrica. Tra ventiquattr’ore ci saranno i funerali pubblici del suo uomo, Mauro Secondari, e nella cittadina balneare del litorale laziale tutti sono disperati. Tranne lei, mamma di un ragazzino di dieci anni, e incapace di versare una sola lacrima. Un personaggio non banale, quasi lunare, e che magari rispecchia il modo di essere unico di Valerio Mastandrea, grande attore (quattro David di Donatello per La prima cosa bella, Gli equilibristi, Viva la libertà e Fiore) che qui debutta alla regia con questo film prodotto da Kimera con Rai Cinema e in sala dal 29 novembre dopo l’anteprima, in concorso, al TFF.
“E’ difficile entrare in contatto con le proprie emozioni – spiega Valerio – a causa anche di un sistema che ti demolisce senza che tu te ne accorga. Quindi credo che questo sia un film su quanto non bisogna permettere al contesto in cui ci muoviamo, alle dinamiche consolidate di comunicazione, di condizionare il nostro rapporto con il dolore come con la gioia. Perché le emozioni sono l’ultima cosa che ci è rimasta”.
Nel film Carolina (Chiara Martegiani, che è anche la compagna di Mastandrea), è in casa, in attesa delle lacrime che non arrivano, e riceve una serie di visite: dall’ex fiamma di suo marito, ben più disperata di lei, alla coppia di amici che si stanno per separare… “Sono tutti testimonial di come si soffre ma nessuno è attento al dolore di lei. Sono mine che quando lei ci salta sopra non scoppiano”. Intanto il padre di Mauro (Renato Carpentieri) sta pescando con due amici: sono operai della vecchia guardia, che hanno fatto tante lotte e sentono di essere rimasti con un pugno di mosche in mano per questa ennesima morte sul lavoro che li tocca così da vicino.
“Le morti bianche- dice Mastandrea, che aveva già affrontato questo argomento nel cortometraggio Trevirgolaottantasette – sono diventate oramai quasi un’abitudine, simbolo dell’ipocrisia di questa società, perché vengono condannate pubblicamente ma di fatto non si fa nulla per fermarle. Come dice un personaggio: si dovrebbe morire in guerra non sul lavoro, queste tragedie sono più assurde delle altre, sono inaccettabili”.
Il film mescola diversi registri, dalla commedia al dramma sociale ai molti momenti surreali. “Nella lunga fase di scrittura con Enrico Audenino – spiega Valerio – non ci siamo posti il problema. Per esempio, la scena in cui piove dentro casa ci è venuta in mente, ma ci siamo presi una notte per pensarci: vediamo se domani ci piace ancora o ci sembra assurda. Volevamo ridere come quando il bambino fa le prove dell’intervista televisiva insieme al suo amichetto e quella risata ti leva il fiato perché è anche tragica. L’unica cosa di cui abbiamo parlato è stato come girare: la scelta di stare addosso ai personaggi e raccontare cosa succedeva dentro di loro alla vigilia del funerale. Nell’approccio sono stato scolastico, come quando studiavo a scuola, ma la cosa che più mi è mancata è stato non poter avere un confronto con Claudio Caligari, essere demolito da lui, anche se lui diceva che ero io ad avere i complessi di inferiorità e non lui a essere cattivo. Tutta la parte con Renato Carpentieri mi ricorda le atmosfere di Non essere cattivo e l’esperienza con Claudio”.
Chiara Martegiani sottolinea come il suo personaggio abbia tante cose in comune con Valerio, quasi rispecchiandone i silenzi sarcastici e interrogativi. “Non è stato facile trovare il giusto equilibrio, ho rubato da lui perché Carolina era molto lontana da me. Abbiamo cercato una leggerezza che la rendesse speciale”. Attore dalle qualità inimitabili, per Mastandrea il passaggio alla regia non era scontato. “Tutti mi chiedevano sempre quando avrei fatto un film da regista, ma io non ne sentivo il bisogno. A un certo punto avrei dovuto fare La profezia dell’armadillo, poi quel progetto si è fermato per un po’ e ho preso per mano Caligari con Non essere cattivo e quindi ho detto a Domenico Procacci che non volevo più fare L’armadillo. Invece la storia di Ride ce l’avevo in mente da tanto tempo: una donna che rimane vedova e non riesce a disperarsi. Mi è venuto in testa leggendo le interviste delle mogli di una strage in cui erano morti 6 o 7 operai. Alla fine abbiamo deciso di tagliare fuori tutto il contesto e concentrarci su Carolina”. E in futuro potrebbe ripetere l’esperienza registica: “Per me è un secondo lavoro”.
Essere a Torino, città operaia per eccellenza, in un festival che ha un Premio Cipputi, che impressione fa? “E’ un caso, ma vorrei anche che non lo fosse. Anche se questo non è un film sulle morti bianche, come Velocità massima non era un film sulle corse clandestine: si tratta di contesti sociali. E poi per me muore sul lavoro anche chi muore perché non si ferma a un posto di blocco”.
C’è un confronto tra diverse generazioni e anche uno scontro fisico molto violento tra il vecchio padre e l’altro figlio, interpretato da Stefano Dionisi, quello che ha rifiutato la fabbrica e vive una vita al confine con la legalità. “Il gesto più forte lo compie il più anziano – dice ancora Mastandrea – si parla spesso male dei vecchi, ma sono loro i pilastri di certi valori che dimentichiamo nella velocità con cui affrontiamo le cose. Questi vecchi sono memoria e azione. Nel confronto/scontro col secondo figlio un uomo che ha lottato tanto mette in discussione il sistema e viene indotto a compiere un’azione intima e sociale allo stesso tempo”.
Interviene Renato Carpentieri: “Il mio personaggio è affrontato senza rassegnazione e senza catarsi. La rassegnazione di chi pensa sia ineluttabile la morte sul lavoro e la catarsi di chi piangendo si consola. Il suo è un dolore sordo. Il vecchio operaio ha anche un fondo di vergogna che suo figlio possa essere morto così”.
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