I complottisti, oggi, sono dappertutto. Al punto che, forse, rischiamo di scoprirne uno nascosto anche dentro di noi. Al dilagare del fenomeno, il giovanissimo regista Valerio Ferrara – è nato nel 1996 – ha dedicato la sua opera prima: Il complottista, appunto. Il protagonista è un padre di famiglia 50enne, barbiere in un quartiere popolare di Roma. La strana intermittenza del lampione davanti alla sua bottega innesca in lui la spirale del sospetto. E come si sa, il sospetto è contagioso… Da questa premessa, nasce una commedia garbata e intelligente che, sulle orme della commedia all’italiana, sviscera la febbre complottista con un tono in cui si alternano comicità e malinconia. Il film, prodotto da Elsinore Film e Wildside, e distribuito da PiperFilm, è stato presentato alla 19esima edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Alice nella Città.
Come nasce questo interesse per il fenomeno del complottismo?
Mi interessa da sempre. Si tratta di un fenomeno universale. Il seme del dubbio fa parte dell’essere umano. E tutti nella vita siamo stati almeno una volta complottisti. Ma dopo la pandemia c’è stata un’accelerazione dovuta al fatto che abbiamo passato più tempo sui social network.
La carrellata orizzontale su Roma con cui il film si apre, con la camera che pare andare in cerca di qualcosa, chiama subito in causa lo spettatore?
L’inizio riassume l’idea base del film: il complottista potrebbe essere chiunque di noi. E’ un inizio classico che serve a esprimere una domanda: ‘Chi è?’. ‘Dove si nasconde il complottista?’. La risposta è che potrebbe trovarsi in una qualsiasi delle case inquadrate.
Il fatto che sia ambientato in dei quartieri popolari come il Quadraro Vecchio o Torpignattara offre un indizio sugli strati sociali più sensibili al fenomeno?
Assolutamente no. Il fatto che quelli del film siano quartieri popolari non significa nulla. Non a caso, le ambientazioni sono trasversali: si va dal quartiere popolare al centro storico, passando per un posto elitario come un circolo sul Tevere. Il complottismo non è una questione di ceto, provenienza, professione, sesso, età.
Però Antonio Calabrò, il protagonista (il convincente Fabrizio Rongione) è un 50enne…
Ho scelto un padre di famiglia che, appena compiuti 50 anni, si ritrova imprigionato in una sorta di routine, in un quartiere chiuso, in cui tutto sembra ripetersi all’infinito. Il complotto dei lampioni gli offre una via di fuga. Allo stesso tempo, mi piaceva anche il rapporto che la generazione dei 50enni ha con Internet.
E il fatto che a cercare di mettere un argine alla deriva complottistica del protagonista sia soprattutto la moglie, cioè una donna, è un caso?
Beh… forse no… (ride).
Chi guarda Il complottista si trova indeciso: alla fine non sa se ridere o piangere.
Proprio così. Volevo raccontare il fenomeno senza filtri e senza pregiudizi. Per questo era necessario che lo spettatore empatizzasse con il protagonista senza dover scegliere se fosse o meno d’accordo con lui. Doveva osservare con lui i lampioni che lampeggiano, decifrarli insieme a lui, etc. Dunque ridere quando davanti alle situazioni buffe o, al contrario, intristirsi. In più, serviva una storia del tutto verosimile.
E il clima sul set com’è stato?
E’ stato molto divertente. Gran parte degli sceneggiatori, il direttore della fotografia, il montatore, il fonico sono tutti under 30 e tutti esordienti. Il complottista è un film fatto e girato da giovani. Mi auguro anche che ci siamo molti giovani tra quelli che andranno a vederlo.
Ci sono, infine, dei modelli a cui si è ispirato nello scrivere e girare il film?
Sono cresciuto a pane e commedia all’italiana. Nel film c’è una forte influenza di quella comicità amara. Ma anche del cinema dei fratelli Coen: a livello di linguaggio, di struttura narrativa, di archetipi. Sono le due mie matrici fondamentali.
L’attrice Antonella Attili nel film è Susanna, la moglie del protagonista, e rappresenta con efficacia l’esasperazione delle persone che vivono accanto a chi è preda di un complotto.
E’ stato complicato calarsi nei panni della moglie del complottista Antonio Calabrò?
No, è stato facile entrare nella sua dimensione. Essere la moglie di Antonio non è semplice. Susanna è una donna molto concreta, del popolo e fa quindi fatica a seguire le astruserie del marito. Passa le giornate a dirsi: ‘E ora di che parlo per evitare il solito argomento?’. L’unica cosa che può fare è chiedere al marito ‘ti prego, torna quello che eri, altrimenti non sappiamo che fare’.
Quali elementi l’hanno spinta a scegliere questo ruolo?
In generale, credo tantissimo nelle opere prime. Nei film d’esordio si respira sempre un entusiasmo contagioso. E poi mi è piaciuta tantissimo la sceneggiatura. Era molto stimolante, perché si inoltrava con la fantasia in un tema per me inedito.
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