CANNES – Valérie Donzelli, la regista del sorprendente La guerra è dichiarata, cerca (senza riuscirci) di ripercorrere le orme nientemeno che di Francois Truffaut con il suo Marguerite et Julien, in sala dal 1° giugno con Officine Ubu. Infatti è stata proprio la sceneggiatura di Jean Gruault, scritta per il geniale regista francese nel 1973, mai realizzata e da qualche tempo pubblicata in volume (Julien et Marguerite) a stuzzicare la fantasia della cineasta che si è lanciata senza rete nel film in costume, riempiendolo però di anacronismi per renderlo più radicale e bizzarro. “Per una volta volevo evitare di partire dalla mia autobiografia e ho scelto questa storia, peraltro vera, perché contiene tutti i temi a me più cari: la coppia, la libertà, la fusione tra due esseri, il desiderio e al tempo stesso l’impossibilità di stare insieme”. Sul perché Truffuat non abbia mai realizzato il film ci sono varie teorie: secondo alcuni avrebbe giudicato il tema dell’incesto troppo inflazionato (due anni prima era stato toccato da Louis Malle in Soffio al cuore).
La storia è appunto quella di un legame incestuoso tra fratello e sorella. Siamo nel XVII secolo e nel castello di Tourlaville – dove il film della Donzelli è stato girato – crescono due bambini, Marguerite e Julien de Ravalet. Sono inseparabili. Si ammirano, lui passa il tempo a dipingere il ritratto di lei, spesso immersa nella lettura. Da quel rapporto così stretto il passo verso l’attrazione sessuale è breve e sono vani i tentativi della famiglia, e specialmente dello zio prelato (Sami Frey), di separarli. Anche se Julien viene mandato a studiare all’estero e Marguerite è data in sposa a un anziano esattore delle tasse che vive con la madre (Géraldine Chaplin), il legame non si spezza, anzi la passione cresce sempre più forte. La sceneggiatura di Gruault (oggi novantenne, fu candidato all’Oscar per Mon oncle d’Amerique di Alain Resnais nel 1980) elaborava questa vicenda storica, che si concluse con la decapitazione dei due amanti dopo che lei aveva dato alla luce un bimbo, basandosi anche su una novella di Barbey d’Aurevilly oltre che su spunti di Stendhal. Ma Valérie Donzelli ha rielaborato il tutto a modo suo insieme al complice di sempre, il marito Jérémie Elkaim, che recita – ringiovanito dalla fotografia di Céline Bozon, come dice lui – nel ruolo di Julien accanto alla più giovane e assai graziosa Anais Demoustier.
“All’inizio volevamo farne una commedia musicale – rivela la regista – poi è diventata una fiaba e comunque non un film in costume perché non c’è un’epoca precisa ma un forte desiderio di romanzesco. Soprattutto volevo fare qualcosa di formalmente diverso”. Ma se per Elkaim “il naturalismo e il realismo dominano il cinema del nostro tempo in modo soffocante”, il pubblico del festival non si è lasciato per nulla coinvolgere da questa costruzione sopra le righe, dove tutto è portato programmaticamente alle estreme conseguenze, ed è spesso scattato in sala l’umorismo involontario, come quando i due fantasticano sulla natura dei loro rapporti: “Se ci sposiamo e facciamo dei figli, saranno anche cugini tra loro e noi saremo gli zii, dicono serissimi”.
Valérie sottolinea che per lei l’incesto non è che un aspetto della vicenda e forse neppure il principale. “Marguerite è una giovane donna irriducibile e ribelle, che viene costretta a un matrimonio assurdo. Più che l’incesto mi interessa l’amore impossibile, la passione come malattia. E credo che lei sia in questo un personaggio femminista. In effetti fu condannata a morte più che per aver amato il fratello per aver tradito lo sposo, perché l’adulterio era inaccettabile quando la donna veniva considerata proprietà del marito”. E rivela: “Avrei voluto essere io Marguerite, ma ero troppo vecchia per il ruolo”.
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