CANNES. “Voglio bene a questo piccolo film che mi ha portato fin qui”, dice un po’ emozionata la neoregista Valeria Golino che presenta oggi la sua opera prima Miele in concorso a Un Certain Regard e già nelle sale italiane da oltre due settimane. “Sono felice, ma non riesco a godere di questo momento. Provo tensione, qualcosa a cui non riesco a dare un nome, vorrei essere più contenta e serena, forse fra un mese lo sarò”.
Miele, con protagonisti Jasmine Trinca e Carlo Cecchi e liberamente ispirato al romanzo ‘A nome tuo’ di Mauro Covacich, è un film coraggioso per la tematica affrontata: il suicidio assistito. La Golino mette da parte dichiarazioni programmatiche o tesi precostituite e si affida a una riflessione aperta e non ideologica su un tema ricco di implicazioni etiche e religiose.
“All’inizio è stato difficile, come mi aspettavo, convincere il pubblico a scegliere di vedere un film che tratta questo tema, anche perché convinto a priori che si tratti di una pellicola cupa”, afferma la regista. Poi ha prevalso un passa parola favorevole e dopo due settimane il film è ancora nelle sale e cresce. “Soprattutto mi è sembrato, promuovendo il film in giro per l’Italia, che le persone che lo vedono siano molto più aperte del previsto, non hanno il pregiudizio e se ce l’hanno sono pronte a metterlo in discussione. I nostri politici e governanti sono molto più indietro rispetto a questi problemi etici di quanto lo sia la gente comune”.
La difficoltà più grande sul set? Le scene di suicidio assistito sono state le più complesse da realizzare e tuttavia sono le più delicate. “Avevo molta apprensione, perché non volevo spettacolarizzare il dolore e neppure nasconderlo – spiega la Golino – Sono stati i momenti più difficili, tanto che ho chiamato per una di quelle scene Iaia Forte e Roberto Di Francesco, due amici e bravi attori con i quali ho voluto proteggermi. Tutta la troupe mi è stata vicina perché quelle scene non diventassero sentimentali e avessero una certa sacralità”.
Jasmine Trinca dice di essersi trovata più a suo agio in questo film dal livello emotivo alto e di non essersi mai sentita sola, grazie alla fusione con la regista, anche nelle scene più difficili. Lei è di casa a Cannes grazie a La stanza del figlio, La meglio gioventù, Il caimano, L’Apollonide e grazie al ruolo di giurata di Un Certain Regard nel 2007. E Cannes viene dopo il Sundance al quale ha partecipato con Un giorno devi andare di Giorgio Diritti, “come Miele un film non solo italiano perché entra in empatia con altre storie del mondo”.
Carlo Cecchi è stato colpito dalla sceneggiatura ben scritta e dal tema non banale di Miele. “Non faccio molto cinema, sono una sorta di clandestino che non ha avuto il permesso di soggiorno, ma non ci tengo tanto”. Il suo personaggio? Per l’attore si riferisce a un archetipo, ovviamente trasformato e da lui molto frequentato: Amleto. “Qualcosa che conoscevo artisticamente e non biograficamente”. Il suo ingegnere non ha più nessun interesse, s’annoia, si è stancato di questa condizione, non vede una via d’uscita. “E’ uno stoico della vita contemporanea. Siccome del suicidio lo ripugna l’atto brutale, granguignolesco, si rivolge a Irene/Miele soprannominandola ‘il suo pusher’. Lei infatti vende la morte, credendosi una benefattrice solitaria della fine dolce nei casi per i quali non c’è più speranza”.
Sul set la Golino ha dovuto superare l’innamoramento e la riverenza verso un attore di questo calibro. “Solo allora ho potuto dirigerlo e lui si è prestato docilmente, anche se temevo di annoiarlo”. Ora lei può anche rimproverarlo amorevolmente per quelle volte che Cecchi improvvisava, avendo dimenticato, prima del ciak, parte delle battute. “Dimmi Carlo come mai non è accaduto sul palcoscenico del Teatro Argentina mentre recitavi ‘La serata a Colono’ di Elsa Morante?”. “Perché quello è un testo che non puoi improvvisare, si svolge in versi e con rime interne”, risponde. Perdonato.
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