Valeria Bruni Tedeschi: “Mi sento femminista, ma mi sento anche un po’ uomo”

L’attrice ospite di Rendez-Vous a Roma per accompagnare ‘L’attachement’ di Carine Tardieu. “Il moralismo che c'è oggi in Francia lo trovo molto pericoloso per l'arte”


Una storia di affetti incrociati, una storia di solidarietà e delicatezza.

L’attachement di Carine Tardieu – in anteprima alla Mostra di Venezia 2024, sezione Orizzonti – arriva a Roma per le giornate dedicate al cinema francese, Rendez-Vous: Valeria Bruni Tedeschi accompagna e racconta il film di cui è protagonista femminile.

La vicenda nasce dal romanzo di Alice Ferney, L’intimité, e sul grande schermo prende corpo con un titolo, L’attachement appunto, che è un marchio emotivo, infatti nasce e s’intreccia intorno al concetto di “attaccamento” che la protagonista, Sandra, stabilisce con bambini che non ha partorito e nemmeno “cercato” – perché non si riteneva “forte abbastanza” – perché lei, cinquantenne indipendente, bibliotecaria femminista, single per scelta e convinta a non voler essere madre, si ritrova da un giorno all’altro a condividere l’intimità di chi vive “nella porta accanto”, accettando di prendersi cura dei figli del vicino di casa. In particolare, Alex (Pio Marmaï) perde la sua compagna di vita durante la nascita della loro bambina, rimanendo da solo con la neonata Lucille e un figliastro di sei anni, Elliott (César Botti).

Bruni Tedeschi incarna un ruolo sfaccettato, è libera e forte, ma anche accogliente e vulnerabile e, attraverso di lei, Tardieu descrive i differenti modi in cui gli esseri umani creano famiglie: “Volevo raccontare la storia di una donna che rivendica un’indipendenza emotiva, le cui fondamenta vengono scosse da un incontro. Ho voluto esplorare una storia di adozione e la forza inarrestabile dell’affetto”

Per Valeria Bruni Tedeschi, “Carine è stata molto brava a impedirmi continuamente qualsiasi cosa: quando le proponevo ‘potrei dire questo, potrei… fare delle cose così’, insomma delle idee che avevo, lei – sempre – prima mi diceva ‘sì, bene, sì; ma no, ma no’. Questa sua gentilezza mi urtava (ride), avrei preferito mi dicesse subito ‘no’; mi sono anche chiesta perché avesse preso me, perché è vero che ci siano delle attrici più contenute, meno estroverse; così le ho chiesto: ‘scusa, ma se mi dovevi tanto dire di ‘no’, continuamente, perché non hai preso….’, e subito lei mi ha risposto: ‘io volevo te e volevo dire di no”. È lì che ho capito fosse qualcosa di interessante, perché questo permette di spostare un pochino l’attrice o l’attore, mettendolo in un posto di novità. Quando l’ho capito ho aderito con più allegria, ero più tranquilla; questa frustrazione è diventata un po’ masochista e gradevole, perciò ero contenta di farmi dire di ‘no’. L’ho trovata una cosa molto interessante perché penso che un attore debba sbarazzarsi dai suoi tic: mi ha un po’ ripulita”.

Quello del film è un racconto famigliare, soggetto che nel corso degli anni recenti ha cambiato forma e sostanza perché, secondo Bruni Tedeschi, “la società in questo senso si sta trasformando in modo molto bello. Per una volta c’è qualcosa di bello. Non c’è più l’obbligo di avere dei bambini, non ti guardano più come se… fossi strana. Moltissimi giovani non vogliono avere figli, è qualcosa per cui si è molto tranquilli. Poi si vive l’omosessualità in modo molto, molto, molto libero, tranquillo, senza più vergogna. Insomma, almeno in certi ambienti. Ci sono un po’ di progressi. L’adozione mi sembra sia qualcosa guardata ormai con meno stranezza, e perciò una famiglia allargata è meno strana, è più facile da accettare, e anche questo film impone un po’ questa cosa: forse l’avrebbe imposta con più difficoltà qualche anno fa, ma adesso risponde a un bisogno della gente. Il film è andato molto, molto, molto bene in Francia, quasi in modo insospettabile, sorprendente, e penso questo venga dal bisogno delle persone di immaginare la famiglia in modo diverso; la gente ha bisogno di questo”.

Ecco il tema dell’adozione, che l’attrice conosce per vissuto in prima persona, ma che nel film non si manifesta in modo canonico, piuttosto è Sandra a essere “adottata” dalla famiglia di fronte, per cui lei si ritrova – non cercato, non richiesto – a gestire un dramma che potrebbe sfociare nell’insostenibile, portando su di sé il lutto di un uomo che in fondo è uno sconosciuto. L’attrice afferma che il suo personaggio sia “una specie di me rivisitata: nella vita ci adottiamo gli uni con gli altri, anche con gli amici ci adottiamo; ho un’amica che una volta mi ha chiesto realmente se io potessi adottarla, una della mia età; ci adottiamo perché ci includiamo nelle nostre vite, come c’è qualcosa nella persona di Valeria (Golino) per cui è diventata una specie di altra sorella per me, cosa che non toglie il legame che ho con mia sorella (Carla), però ci sono dei legami molto forti, che sono come l’adozione”.

E così si parla del concetto di “rapporto”, che Sandra stabilisce con il bambino Elliott. Per Bruni Tedeschi il piccolo Botti “era molto bravo come attore, cioè sembrava uno di noi adulti: sapeva il testo perfettamente, ripeteva le cose, non era mai stanco, cosa molto rara per i bambini che si stufano a un certo punto; questo bambino era sempre pronto a continuare, rifare e, nello stesso tempo, aveva la spensieratezza dei bambini, la naturalezza dei bambini. Con il bambino non si può far finta, è come un diapason che obbliga alla musica giusta. In lui, c’era nello stesso tempo il buono del bambino e il buono dell’attore adulto, c’era tutto, era una specie di paradiso questo bambino”.

Certamente non passano inosservate certe similitudini tra lei persona e il suo personaggio e infatti l’attrice conferma e approfondisce che “quello che ho vissuto in questo film è che il personaggio era un po’ me, semplicemente me contenuta, un po’ soffocata: voglio dire, la tenerezza che Sandra prova verso un bambino esiste, non è sradicata, era lì, però non era espressa. Per quanto riguarda avere un rapporto con un bambino che non è del mio sangue, io non ho grandi rapporti con i bambini in generale, ma con i figli sì e ho un rapporto molto da madre a figlio, esattamente come se fossero biologici, sono molto concentrata sui miei figli, non c’è per me alcuna differenza. Mi considero fortunata per aver potuto avere dei figli così tardi nella vita e queste due persone che ho davanti – perché i figli sono delle persone – le ammiro molto, come forse tutti i genitori ammirano i propri figli, non so”.

Tra le tante “facce” del suo personaggio c’è un credo femminista esplicito, ma lei, la donna Bruni Tedeschi, è femminista? “Mi sento femminista e il femminismo è… lottare per l’uguaglianza degli uomini e delle donne, nella sfera privata e pubblica. Da sempre, ricordo di aver letto un libro bellissimo – ero piccola, dovevo avere forse 10/12 anni, quando insomma uno inizia ad avere le proprie coscienze politiche e sociali – era Dalla dalla parte delle bambine: un libro eccezionale, che smantellava tutti i meccanismi patriarcali, sin da quando la donna resta incinta. È incredibile quel libro, è veramente molto interessante. Il femminismo è da sempre nella mia vita, io non vedevo proprio la differenza: per esempio, se a casa davano più potere a mio fratello io impazzivo, così come ho sempre visto anche mia madre come una donna molto libera, molto, molto libera. Il mio femminismo è il mio personale, non aderisce a alcune caratteristiche del femminismo estremista di oggi, assolutamente: non aderisco all’odio delle donne contro gli uomini, non aderisco alla tirannia della parola, che è una cosa meravigliosa ma deve essere libera per tutti e non solo per le donne; trovo che il femminismo estremo di oggi non viaggi tra tutte le classi della società, non visiti tutti i mondi, visiti molto il mondo della cultura, dello spettacolo, della politica, ma non i mondi più umili, in cui le cose non si muovono. Non credo tanto che il #metoo vada nelle fabbriche, poi magari sì, forse mi sbaglio. Io aderisco alla lotta per l’uguaglianza, ma in cui non c’è una parte della società contro un’altra, io non mi sono mai sentita contro gli uomini: d’altronde, mi sento anch’io un po’ uomo e mi sento anch’io piena di difetti, piena di cose da cambiare, di autocritica da fare, perciò non vedo perché ci debba essere quest’odio, che in Francia è veramente molto angosciante”.

Nasce spontaneo sapere, secondo lei, come sia messo l’uomo oggi, nella vita, nel cinema. “È molto in difficoltà, perché è rimesso in discussione il suo rapporto con le donne: rimettersi in discussione è sempre una buona cosa però, quello che ripeto, è che io non aderisca assolutamente all’odio e al disprezzo, così è anche un modo un po’ ottuso, che non vede la complessità dell’essere umano. Credo molto, soprattutto nell’arte, ma anche nella riflessione sulla società, che sia necessario riflettere sull’essere umano come essere complesso: così, anche nel cinema penso sia molto importante che resti un posto in cui si lavori sulla complessità dell’umanità, sulla complessità dei rapporti. Per esempio, L’arte della gioia – un film veramente cinematografico, un capolavoro e non perché ci sono dentro, ma perché lo penso – ha problemi a essere comprato in Francia: perché? Perché in Francia c’è un problema, c’è una resistenza molto pericolosa rispetto alla complessità dell’essere umano: in Francia, nella cultura, si vuole cancellare il fatto che l’essere umano sia complesso. Il moralismo che c’è oggi in Francia lo trovo molto pericoloso per l’arte”.

Infine, parlando di cinema francese si pensa subito alla Nouvelle Vague: è ancora attuale? Per Bruni Tedeschi “è completamente rimessa in discussione, ci sono dei film che non si fanno più vedere: sono dei film che non sono la Nouvelle Vague ma sono i figli della Nouvelle Vague, come quelli di Maurice Pialat per esempio. Il rapporto di un regista con un’attrice, come Godard o Bardot, oggi non si rivisita, non si fanno più vedere i film e basta. Oggi in Francia c’è questa cosa della cancellazione delle opere invece, secondo me, una cosa buona da fare è la contestualizzazione delle opere. Non si può annullare Ultimo Tango a Parigi, come non si possono annullare i film con Marlon Brando, i film di Pialat apppunto, i film con Depardieu, i film di Truffaut! Piuttosto, perché non utilizzare lo strumento della contestualizzazione? Si potrebbe parlare prima o dopo la visione del film, mettere tutti tranquilli che niente è tabù. Forse la famosa scena con Marlon Brando e Maria Schneider ha fatto del male a questa giovane attrice, ma se ne parlassimo prima di vedere il film, poi potremmo guardarlo, dovremmo… perché è un capolavoro. Io sono molto contro alla cancellazione”.

 

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