Passa alle Notti Veneziane, spazio alternativo delle Giornate degli Autori, in collaborazione con Isola Edipo, durante l’81ª Mostra, il documentario Vakhim di Francesca Pirani.
Prodotto da Luca Criscenti per Land Comunicazioni, con la collaborazione di Valeria Adilardi, il film è un racconto intenso che esplora una vicenda intima e personale, toccando temi universali come il dramma delle separazioni, la perdita degli affetti, il legame tra genitori e figli, e la difesa della memoria e dell’identità culturale.
Vakhim, adottato in Cambogia all’età di quattro anni, arriva in Italia nel 2008 e viene adottato dalla regista del film.
Parla solo khmer e tutto ciò che lo circonda gli è estraneo. Il passato è ormai lontano, ma in Italia c’è anche Maklin, la sorella maggiore, e dopo qualche anno arriva una lettera: è la sua madre biologica che chiede notizie del figlio. I genitori adottivi, decidono di mettersi sulle sue tracce.
Pirani, regista e sceneggiatrice versatile che ha iniziato la sua carriera collaborando con il Bellocchio, si mette in gioco personalmente, aprendo le porte della sua esperienza individuale. Alternando materiale di repertorio privato a nuove riprese, naviga tra realismo e poetica della memoria, utilizzando vari stili e tecniche per rappresentare la complessità della storia di Vakhim, superando i limiti della semplice narrazione documentaristica.
La voce narrante della regista guida lo spettatore in un viaggio emozionante tra l’Italia e la Cambogia, riflettendo sulle emozioni, i dubbi, le certezze e le speranze che accompagnano la complessità dei rapporti familiari e il profondo significato dell’essere famiglia.
“Tutti mi dicevano che avrei dovuto raccontare la storia di Vakhim – dice Pirani ai microfoni di CinecittàNews – io non ci avevo mai pensato. Ma ho capito che in qualche modo lui ci teneva e quindi ho iniziato a scriverne. Tutto è iniziato col Premio Solinas nel 2019, naturalmente da quando ho iniziato è passato del tempo e sono cambiate molte cose. I bambini adottivi perdono presto la lingua madre, ma per loro è uno sforzo pazzesco adattarsi al nuovo sistema, una violenza su sé stessi, una cancellazione. Già quando era piccolo facevo delle riprese proprio per preservare questo aspetto, volevo lasciare una traccia della sua lingua madre”.
E oggi cosa ne pensa Vakhim del film? “E’ contento, ma non si sente particolarmente cambiato dall’esperienza. Ha vent’anni ormai, lo percepisce come un pezzo della sua vita, e sa che prima o poi sarebbe comunque andato alla ricerca delle sue origini. E’ molto pragmatico”.
Pirani non nasce documentarista e ha dovuto adattare la sua metodologia per ottenere il risultato: “Non volevo fare un doc classico, basato su interviste – specifica – volevo che fosse una ricerca su cosa accade a un bambino che perde tutto il suo mondo, il prezzo che paga, quello che diventa. Vakhim e la sorella ricordano perfettamente quello che gli è accaduto. Ricordano la madre che li porta in orfanotrofio, per “salvarli” in qualche modo. Oggi lo hanno digerito, ma naturalmente hanno sofferto, e poi si sono ritrovati in un sistema totalmente diverso: il clima diverso, un’altra lingua. Un conto è arrivarci trentenne, un conto da piccoli. E’ qualcosa di inimmaginabile. Ma i bambini hanno energia vitale e sono curiosi, per cui trovano il modo di adattarsi”.
Il film presenta varie fasi, spesso girate con tecniche diverse: “una Canon, l’iphone, una F7 e perfino la telecamerina MiniDV con cui ho effettuato le riprese quando Vakhim era piccolo. Era materiale disomogeneo che abbiamo dovuto armonizzare, ma alla fine arricchisce il film. La prima parte è stata più semplice, la seconda più oscura: c’era il tema della madre naturale, non potevamo ignorarlo, ma nemmeno sapevamo se saremmo poi riusciti a incontrarla. Si poteva finire a fare un documentario di denuncia, ma non era questo il mio progetto, non è un film d’impostazione giornalistica. Mi interessava soprattutto l’aspetto umano”.
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