BERLINO – Ulrich Seidl produrrà un horror (Ich seh/Ich seh) che sarà diretto da sua moglie e collaboratrice Veronika Franz e da Severin Fiala. La notizia, rimbalzata all’European Film Market di Berlino, non sorprende. In fondo tutto il cinema del sessantenne regista austriaco vuole dimostrare che l’orrore fa parte dell’esistenza comune. Specie nella provincia austriaca.
In concorso alla Berlinale con il terzo e ultimo capitolo della trilogia sarcasticamente dedicata al paradiso, stavolta dedicata alla virtù della speranza, Paradise: Hope è la storia di Melanie detta Melli, figlia di quella Teresa che nel primo episodio abbiamo visto a caccia di incontri sessuali in Kenya (Paradise: Love) e nipote di Anna Maria, la missionaria porta a porta in azione nel secondo film (Paradise: Faith). Tredicenne obesa, Melli viene spedita a passare l’estate in un campo per adolescenti sovrappeso dove si praticano diete e ginnastica. Il luogo è gestito con ferrea disciplina da uno sparuto personale: una dietologa, un insegnante di ginnastica e un medico. Ed è proprio del medico, sulla cinquantina, che si innamorerà Melli, istigata dalla compagna di stanza più scafata con qualche lontana eco di Lolita di Nabokov. L’estate della ragazza sarà comunque costellata da tutti i riti di passaggio canonici, dalla sbronza alle confidenze sessuali al gioco della bottiglia, ma né lei né nessuna delle altre ospiti perderà un solo chilo.
Come nei due precedenti film di Seidl anche qui il significato di “speranza” viene proiettato in una sorta di specchio deformante – le aspettative della protagonista sono destinate a rimanere deluse, le speranze sono false per definizione – ma il regista sembra nutrire per la giovanissima Melanie una maggiore benevolenza e anche la descrizione impietosa dei corpi, da sempre al centro del suo cinema, è un po’ meno sprezzante del solito. Del resto il tema dell’obesità è più che mai ricorrente in questi tempi di fitness e bellezza forzata, e si moltiplicano in tv i reality in stile “Biggest Losers”.
Per Seidl è stato un tour de force portare a termine i tre film – tutti girati secondo un rigido programma che trasferisce alla fiction il metodo del documentario – arrivando a presentarli in sequenza nei tre festival più importanti del mondo: Cannes, Venezia e Berlino. “Ho fatto qualcosa che nessun altro regista aveva osato e ho creato un bel dibattito attorno alla trilogia, scatenando anche polemiche”, dice ora soddisfatto.
Ora sta ultimando un documentario intitolato Im Keller dove ha esplorato il rapporto privilegiato degli austriaci con le proprie cantine, spesso arredate meglio degli appartamenti e teatro di una doppia vita ma anche scenario di qualche nefandezza. Subito dopo cambierà rotta con Der Grasel, sulla figura del bandito Johann Georg Grasel, impiccato a Vienna alla fine del XIX secolo. Un film in costume da lui non ce lo saremmo aspettato…
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