VENEZIA – A Venezia 77 (Orizzonti) e nelle sale con Lucky Red, Nowhere Special di Uberto Pasolini, regista, produttore e mente creativa dietro Machan e Full Monty, che vive da diversi anni in Inghilterra e che nel suo nuovo film racconta la storia, ispirata a una vicenda vera, di un padre amorevole, malato terminale, senza parenti, che cerca di trovare una nuova famiglia cui affidare il figlio prima di morire. “Due anni fa ho letto su un giornale di questa vicenda, e mi ha dato lo spunto per costruire una storia molto chiara e precisa. Un racconto che, di per sé, si potrebbe anche esaurire in una spiegazione di cinque parole, ma che, poi, spinge a parlare di tanto e per molto tempo”.
Nel corso del film il cambiamento arriva dall’evoluzione dei sentimenti dei protagonisti, piuttosto che dagli sviluppi della storia, e se in un primo momento il padre sembra sicuro delle caratteristiche che deve avere una famiglia perfetta, con il passare dei giorni abbandona le sue convinzioni, sopraffatto dai dubbi sulla decisione da prendere. Così come abbandona l’iniziale riluttanza a rendere partecipe il figlio della verità di ciò che li attende. “Non c’è un plot che evolve in questo film, sono i protagonisti e le relazioni che cambiano. Ho scritto il cambiamento delle emozioni, non una storia che si sviluppa, ma il ritratto di una situazione e di due vite”.
Nowhere Special tocca, con straordinaria leggerezza, il tema della morte, come già il suo precedente Still Life, in cui il protagonista era un funzionario comunale col compito di rintracciare i parenti di defunti senza alcun conoscente vicino. “Io vedo la morte come una scusa per parlare della vita. La morte è quello che dà il significato alla vita. In entrambi i film, quello che mi interessava era guardare la vita attraverso il filtro di una morte e vedere, in Still Life, come si vive nella società, in questo come si vive all’interno dei rapporti personali”. Ma sono tante le tematiche affrontate, a partire dalla complessità della paternità. “È un film sull’essere genitori – continua il regista, padre a sua volta di tre figli – sulla profondità del dialogo, sul come ci si aiuta a vicenda, come fa questo padre che aiuta suo figlio per quando non ci sarà più. Un film sul mestiere difficile dell’essere genitore, sul come possa essere estremamente complicato aiutare senza spingere, sollevare senza indirizzare troppo o condizionare”.
Malgrado la situazione in cui si trovano i protagonisti sia profondamente drammatica, la pellicola mantiene sempre un tono discreto, come una regia a basso volume, senza melodrammi o sentimentalismi urlati. “Il mio gusto, in generale, è per il cinema sussurrato – rivela Pasolini – credo che più è drammatica la situazione e meglio possa essere trattata se fatto con leggerezza. Più è sussurrata la storia, più arriva allo spettatore che vuole essere coinvolto, gli entra maggiormente nella pelle. Temo che il momento di emotività urlata possa, sicuramente, arrivare nell’immediato a un certo tipo di pubblico, ma finisca, poi, per consumarsi nella sala stessa, a non entrare dentro”.
Nel cast James Norton accanto a un giovanissimo Daniel Lamont: “A un certo punto c’è stato un viaggio parallelo che hanno fatto i due protagonisti, fino al momento finale del film – rivela il regista – Non credo che Daniel, che aveva all’epoca quattro anni, abbia capito cos’è la morte, del resto non l’ho capito neanche io, ma ha compreso che stavamo facendo un film su una cosa seria. Ad un certo punto ha capito che non era un gioco ed è diventato serio e professionale. L’ultima scena è stata emotivamente forte per lui, c’è stata un’immedesimazione, una sorta di confluenza tra il ruolo e la persona. Una specie di miracolo, non credo che sarei capace di ripeterlo di nuovo sul set con un altro bambino”.
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