Ma proprio i dibattiti e le discussioni erano il cuore dei cineclub e in particolare del Filmstudio della Capitale, a cui Toni D’Angelo dedica l’appassionato documentario Filmstudio, mon amour, presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Hidden City, e realizzato proprio grazie all’archivio di questo monumento di cinematografia, dove ci si sentiva un po’ una setta, un’elite.
In una stanza piena di fumo si poteva incontrare Moravia e guardare i film che avevi sempre sognato di vedere, ma non eri mai riuscito. Prima di Netflix, prima del DVD, prima di Fuori Orario, prima di tutto. Lo storico club di Americo Sbardella e Annabella Miscuglio è attivo ancora oggi. Si poteva poi assistere alle prove teatrali del Living Theatre dove sono passate le opere di registi come Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Glauber Rocha, Fernando Solanas, Pier Paolo Pasolini, Eric Rohmer, Robert Kramer, Straub e Huillet. Il film si apre sullo sfondo di una Roma a fine anni ’60, quando l’azione si fa arte e le rivendicazioni, i movimenti, le contestazioni, divengono parte integrante dell’espressione creativa. Tra le interviste spiccano quelle a Bertolucci, Jonas Mekas, Moretti, Vittorio Taviani, Carlo Verdone, Adriano Aprà.
Ci racconti il Toni D’Angelo cinefilo, e come è nato il suo rapporto con il Filmstudio…
Facevo il DAMS, prima a Bologna e poi a Roma. Erano i primi Duemila. Nella capitale il Filmstudio era l’unico posto dove potevo vedere i film in lingua originale e in pellicola. Era sempre stracolmo, file interminabili. Lì ho studiato le grandi retrospettive, Truffaut, Godard. Cose molto difficili da reperire. Nel 2007 ho fatto il mio primo film e il responsabile Armando Leone mi ha chiesto di poterlo proiettare lì, per cui ho iniziato a frequentare lo studio anche come amico e collaboratore. Proprio Armando poi ha proposto di realizzare quest’opera, di cui ha curato la sceneggiatura, che racconta il Filmstudio attraverso il mio sguardo.
Racconta anche delle vicende interessanti, personali, come la storia di Alberto Grifi, Patrizia Vicinelli e Aldo Braibanti. Ha mai pensato di trasformarlo in un film di fiction?
Penso che sia abbastanza evidente. In un momento del film prendo una tangente che si focalizza sull’amicizia tra Grifi, Patrizia Vicinelli e Braibanti. E’ una grandissima storia d’amore e mi piacerebbe svilupparne la sceneggiatura. E’ una grandissima storia d’amore, forse un modo interessante di raccontare il ’68 da un altro punto di vista. Ovvero quello di chi non stava in piazza ma faceva, attivamente, cinema e cultura. E proprio perché faceva veniva arrestato e censurato… mi appassiona moltissimo.
Lei che è degli anni ’70 cosa ha ereditato del ’68?
In effetti, il 68 è rimasto solo un numero. Ho ereditato la precarietà, e forse un po’ di responsabilità ce l’hanno anche quei ragazzi là. Molti di loro sono stati anche incoerenti. E’ un aspetto molto comune a tanti film e romanzi. Io però l’ho filtrato attraverso il ‘fare’. Questi personaggi di cui parlavamo, hanno fatto la rivoluzione senza mettersi in mostra e senza seguire la massa urlando slogan. Poi Grifi è diventato, dopo l’arresto, uno dei registi più politici degli anni ’70. Ha detto ‘basta con i film di teatro sperimentale, voglio fare film che parlino della gente’. Il ‘68 lo ha fatto fino alla morte. Ho avuto la fortuna di conoscerlo ed è stato un maestro di vita.
Oggi cosa sopravvive della cultura del cineclub?
I nuovi media hanno influito sul modo di esprimersi attorno al cinema? I cineclub ormai sono morti. Il cinema è diventato un evento, il terzo teatro. Ormai i film si vedono in streaming, e parlo non di film industriali ma di quelli piccoli, indipendenti. Oggi si può pensare solo a eventi mirati, uscita di due giorni e lavoro di passaparola e tam tam. Due giorni al Filmstudio, due giorni a Milano e così via. La sala da sola, quattro spettacoli al giorno per sette giorni, non reggerebbe. I cineclub potrebbero sopravvivere solo se sostenuti dagli enti, come la sala Trevi a Roma. E a quel punto potrebbero lavorare per riuscire a portare la gente in sala. Ormai la gente al cinema bisogna portarcela. Non è più curiosa come un tempo. Hanno tutto a disposizione. Prima i film di vedevano solo in un’occasione per dieci anni, si facevano le trasferte per vederli. Oggi il rapporto con il pubblico è molto più complicato.
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