Tomas Milian torna a Roma: “Come una resurrezione”

Monnezza amore mio è il titolo del libro scritto dal grande attore cubano con la collaborazione di Manlio Gomarasca, in cui Milian si racconta ed esprime tutta la sua passione per il personaggio


‘Monnezza amore mio’ è il titolo del libro scritto dal grande attore cubano con la collaborazione di Manlio Gomarasca, in cui Milian si racconta ed esprime tutta la sua passione per il personaggio che lo ha reso celebre in Italia con l’indimenticabile ondata di poliziotteschi e commedie da lui interpretate negli anni ’70. Pubblicata sotto casa editrice Rizzoli, l’opera verrà presentata proprio a Roma, la sua seconda casa, presso la Galleria Alberto Sordi 33 lunedì 20 ottobre alle ore 18, in un delicato incontro con il pubblico in cui Milian anticiperà le sue più significative esperienze di vita lavorativa e personale.

Oggi, però, l’attore è al Festival di Roma, dove viene insignito con il Marc’Aurelio Acting Award 2014, mentre domani, 17 ottobre, alle ore 16.30, terrà un incontro con il pubblico e la stampa in Sala Petrassi. Ieri ha riconquistato la sua seconda casa, ha incontrato Bertolucci (che lo aveva diretto ne La luna, del 1979) e ha girato per Campo De’ Fiori, dove è stato riconosciuto e coccolato.  “Tornare a Roma è come una resurrezione – dichiara Milian, ingrigito dall’età e indebolito da una malattia cronica, ma sempre carismatico e affascinante – e Monnezza è veramente il mio personaggio preferito. Per scoprire perché, dovrete comprare il libro, è una cosa molto lunga, ma cerco di spiegarvela con un po’ di aneddoti”. E poi parte con la sua caratteristica parlantina, raccontando episodi toccanti e commoventi della sua vita: “A Cuba facevo parte di una famiglia alto borghese, con tanti soldi, parte della high society. Non ero felice, non mi piaceva, già avevo sviluppato uno spirito ribelle proprio perché ero contro quel tipo di vita. Avevo visto al cinema La valle dell’Eden e mi ero identificato col personaggio di James Dean. Anch’io non andavo d’accordo con mio padre, che voleva più bene a mio fratello. E anch’io avevo il mio ‘sacco di faglioli da offrirgli’, solo che lui si era già suicidato, quindi lo avrei offerto idealmente a mia madre. Fatto sta che avevo in mente di fare l’attore e di farlo alla grande. Puntavo all’America e all’Actor Studio, ma non lo avevo detto a nessuno. Andai da una mia zia che era una donna colta, sposata al preside dell’Università dell’Avana, che sosteneva anche economicamente la rivoluzione di Castro. La mia famiglia invece non ne voleva sapere. Io non ero politicizzato, non sapevo niente di comunisti e fascisti. Poi mi sono reso conto che ero io a essere un piccolo fascista, sempre in macchina super-accessoriata con l’aria condizionata, mi buttavo tutto il giorno al culture club e cose di questo tipo. Insomma ero uno stronzo. E lei mi aprì gli occhi proprio così. Mi disse: “ok, ma che film faresti? Il film di un ragazzino che si sveglia all’una e la cui unica preoccupazione sono i bagni, la tintarella e le tipe da portarsi a letto la sera? Che noia! Tu, se vuoi fare l’attore, devi imparare come campa la gente comune, quanto fatica per portare il pane in tavola. Io ti pago gli studi a Miami, ma comincia dall’inglese, che in America ne avrai bisogno. Aveva ragione: per il mio provino scelsi un pezzo da ‘Home of the brave’ di Arthur Lawrence, io interpretavo un personaggio che in origine era nero, ma lo convertii in portoricano per poter sfruttare il mio accento. Io lo so quando sono bravo, che significa per me essere autentico, non fingere, come avrebbe voluto Stanislavskji. E fui bravo, andò bene, infatti mi accettarono. E poi il personaggio lo sentivo mio. Era un paralitico, ferito di guerra, che non era riuscito a salvare la vita del suo migliore amico in trincea. Per me si trattava di mio padre. Si ammazzò davanti a me quando avevo 12 anni. Era il 31 dicembre, mezz’ora prima mi aveva detto “tu sei un uomo. Dal primo gennaio ti occupi tu di mamma e della sorellina”. Poi lui se ne andò in camera mentre tutti noi altri della famiglia eravamo a mangiare in un’altra stanza. A un certo punto vedo mia madre che va a parlare con lui e torna in lacrime, e mi scatta l’istinto protettivo. Mi preparo ad affrontare mio padre. Non lo amavo, ero spaventato da lui. Era una specie di mostro, un militare che impartiva ordini col bastone. Vado in camera e lo chiamo: ‘Papi?’. Niente, non risponde. Entro e me lo trovo che mi fissa, vestito con la divisa da ufficiale. Poi mette la mano alla cartucciera e mi punta la pistola addosso. Ho pensato ‘per me è finita’, ma invece continuò verso il suo stesso cuore e si sparò un colpo. Andai in stato di shock, ma non piansi. Anzi, onestamente mi sentivo come un popolo liberato da un dittatore. Cosa feci? Feci un film, il mio piccolo film drammatico, La valle dell’Inferno. Scesi a telefonare a mia nonna, e recitavo. Lasciai cadere il telefono per dare un gesto drammatico al tutto, ma mi resi conto che non era sufficiente. E poi era occupato, dunque corsi verso casa di nonna per arrivare almeno con l’affanno, e darle la notizia. Scoppiò un casino, e la mia reazione fu che mi veniva da ridere”.

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16 Ottobre 2014

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