In una società che sta riscrivendo i ruoli di genere e che sta provando a mettere un freno a secoli di stereotipi e pregiudizi, in un ultimo slancio di liberazione non solo sessuale, ma anche identitaria, il cinema di Tinto Brass appare come un fulgido esempio di arte completamente libera dagli schemi precostituiti. Nonostante una carriera ricca di controversie e polemiche legate alla rappresentazione dell’immagine femminile, nel giorno del suo 90mo compleanno (26 marzo 20023) non si può che celebrare la figura di un regista che ha saputo trattare con autorialità un genere estremamente delicato, tanto da meritarsi la definizione di Maestro dell’eros.
“Novant’anni sono un traguardo importante per le persone che mi amano e il mio pubblico. – dichiara il regista in un’intervista ad Adnkronos – Io non li sento gli anni. Mi basta un sigaro e un buon whisky per festeggiare. Ma sarò felice di accogliere gli amici più intimi qui a casa a Isola Farnese. Mi spiace che non ci sarà il mio amico Maurizio, l’ultimo ortodosso di una vita gaia e anarchica. A lui mi lega un destino affine e l’amore per la stessa donna: Caterina…ma questa non è una storia per conformisti”.
Di certo non è questo l’unico esempio di una carriera decisamente fuori da ogni tipo di conformismo, fin dall’esordio del 1963, Chi lavora è perduto, titolo scelto in sostituzione dell’originale In capo al mondo per evitare la censura. Dopo gli esperimenti con generi come il western e il giallo, l’autore trova la sua dimensione in quello erotico grazie alla sua capacità di abbattere i taboo sessuali dell’epoca, sfidando le fasce più conservatrici della società in cui viveva. Il vero successo arriva nel 1983 con La chiave, caso mediatico e secondo migliore incasso della stagione (dietro solo a Flashdance) che lanciò definitivamente la carriera di Brass come quella della sua protagonista Stefania Sandrelli, che in quel momento “era un po’ dimenticata”. “Grandissima attrice. – ricorda l’autore in un’intervista al “Corriere della Sera” – Con me è stata bravissima. È venuta poco tempo fa, è stato un pomeriggio emozionante”.
Da lì in poi seguiranno una serie di film di culto come Miranda, Capriccio, Paprika, Così fan tutte, che valorizzeranno i corpi, la sensualità e il talento di tante giovani attrici. Il regista le ricorda con affetto: “Tutte le mie attrici mi hanno amato. Anna Ammirati. Bravissima. Ha detto che verrà presto a trovarmi, non mi ha mai rinnegato. Deborah Caprioglio. Ho litigato con la mia prima moglie per lei. Era molto calorosa e simpatica. E libera, molto libera”.
Unica eccezione, forse, è Anna Galiena, protagonista di Senso ‘45. “Non mi ha amato. – ammette Brass – Nel primo giorno di riprese, alla fine della prima scena io le ho messo le mani sul seno, le mi ha fulminato. Il film è andato avanti lo stesso, ma il rapporto non ha funzionato. Eppure era stata lei a proporsi”. Nell’epoca del #metoo, sembra necessaria una precisazione: “Non ho mai assolutamente molestato nessuno sul set. Chi ci stava era consenziente, ma sempre fuori dal set. Si prendevano degli impegni per dopo”.
“Vivete per libertà e non abbiate paura di fare esplodere gli schermi” è il consiglio che Brass dà ai giovani cineasti. Proprio lui che ebbe il coraggio di rifiutare la proposta della Warner Bros di dirigere Arancia Meccanica prima che il progetto venisse affidato a Kubrick e che riuscì a dare lezioni di gestione del budget a un certo Federico Fellini: “Aveva saputo di questo progetto e aveva voluto conoscermi. – racconta – Sono andato da lui al bar Canova di Piazza del Popolo e gli ho raccontato la trama. Lui mi ha detto: ‘Ah, sì, anche io faccio un film così, ma come fai coi soldi? Non è costoso?’. E io: ‘Mah, non so, costerà 40 milioni…’. E lui: ‘Quaranta milioni? Pensavo 4 miliardi! Questo film non si può fare’. E così l’ho fatto io”.
A quasi vent’anni dal suo ultimo controverso lungometraggio Monamour (fu rifiutato dalla Mostra di Venezia per un cavillo e non venne distribuito in sala), Tinto Brass – che nel frattempo è sopravvissuto a un’emorragia cerebrale, a un ictus e a due ischemie – rappresenta uno degli ultimi esponenti di quel cinema italiano che tra gli anni ‘70 e ‘90 riuscì a proporre una visione autoriale fortemente improntata sul genere, attirando costantemente l’attenzione del pubblico e dei media. Un cinema che appare impensabile nelle dinamiche produttive e distributive attuali, ma di cui indubbiamente sentiamo la mancanza.
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