L’usurato detto “Dietro ogni grande uomo, c’è sempre una grande donna” acquista un significato del tutto nuovo e imprevedibile in The Wife Vivere nell’ombra, dramma beffardo dai risvolti femministi che mette al centro la figura della moglie di uno scrittore di successo e svela i diabolici meccanismi di vampirismo intellettuale all’interno di una coppia solida e allo stesso tempo disfunzionale. Joan Castleman è la perfetta moglie devota. Brillante studentessa di un corso di scrittura creativa, ha sacrificato il proprio talento per vivere accanto a Joe, il professore di cui si è innamorata nonostante fosse sposato e con un figlio piccolo. A quell’uomo infantile e bisognoso di continue attenzioni, tra l’altro adultero compulsivo, ha dedicato tutta la sua esistenza.
Quarant’anni dopo – la vicenda attuale si colloca negli anni ’90 – i due (Glenn Close, che potrebbe aspirare alla sua settima candidatura all’Oscar, e l’impeccabile Jonathan Pryce) sono ancora insieme: lui ha scritto decine di romanzi di successo tradotti in tutto il mondo e ora sta per ricevere il massimo riconoscimento, il Premio Nobel. E sarà proprio durante il loro soggiorno a Stoccolma che la donna presenterà il conto al suo consorte. Nel duello verbale e umano tra i due coniugi, alimentato dallo straordinario carisma attoriale di questi anziani interpreti pieni di fascino, eleganza e combattività, si inseriscono poi figure di contorno che arricchiscono il meccanismo della rivelazione: il figlio della coppia (Max Irons), aspirante scrittore sempre sminuito dal padre, e un giornalista impertinente determinato a scrivere una biografia non autorizzata (Christian Slater) che ronza attorno alla famiglia alla ricerca di rivelazioni.
Scritto da Jane Anderson sulla base del romanzo di Meg Wolitzer, il film – dal 4 ottobre al cinema con Videa – va decisamente in profondità nel descrivere la ben nota tendenza femminile a restare nell’ombra, a ritagliarsi un ruolo di secondo piano, a sacrificarsi (un tema curiosamente presente anche nell’opera di Roberto Andò Una storia senza nome). La giovane Joan, che vediamo in azione nei calibrati flashback, si lascia intimorire da una società letteraria che non valorizza in alcun modo l’intelligenza delle donne se non in posizioni subalterne e ancillari: un tema fortemente attuale, con le dovute differenze. Ma il film non è e non vuole essere solo un pamphlet rivendicativo, ha sottigliezza da vendere nel definire la danza di destini incrociati e evita di vittimizzare la figura di Joan o puntare l’indice accusatore su Joe (non casuale il rispecchiarsi dei due nomi l’uno nell’altro). E tra i meriti (non accessori) del film anche la scelta di due attori coetanei (entrambi nati nel 1947).
Alla guida del progetto lo svedese Björn Runge, vincitore dell’Orso d’argento alla Berlinale, apprezzato “regista di attori” che si ritaglia un ruolo di servizio rispetto al protagonismo dei due interpreti: “Per me – dice Runge – questo film è come la musica, il modo in cui Glenn Close e Jonathan Pryce recitano mi fa pensare a due strumenti solisti che suonano insieme. La mia ambizione come regista è trovare il modo di lasciare liberi gli attori”.
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