I film di Paolo Virzì hanno spesso raccontato il mondo operaio, le sue battaglie, le sue condizioni, i suoi cambiamenti. TamTam pubblica in anteprima alcune riflessioni del regista sul rapporto del suo cinema con questo universo. Il testo integrale sarà pubblicato dagli Annali dell’Archivio audiovisivo del Movimento operaio democratico.
Sembra già un’epoca fa, eppure son passati solo sette, otto anni da quando ho girato La bella vita.
A ripensare alla genesi di quel film, vengono in mente le tante discussioni che alla fine degli anni Ottanta e nei primissimi Novanta misero in subbuglio la sinistra e il sindacato circa la propria identità.
Piombino, e l’asprissima vertenza con il nuovo padrone Lucchini, sembravano un po’ il simbolo di quel momento cruciale.
Grazie alle insistenze del sindaco di Piombino Fabio Baldassari con i vertici dell’Ilva, riuscimmo ad avere accesso all’interno degli impianti.
La visione della colata d’acciaio, il fragore, i botti, il caldo impossibile, il puzzo insopportabile, ci facevano domandare come facessero tanti operai a battersi così duramente per continuare a lavorare tutti i giorni in quell’inferno.
Ricordo che il copione veniva continuamente riscritto: un po’ perché il produttore Roberto Cimpanelli non si decideva a far partire il film (c’è da comprenderlo e rendergli onore: la tivù non sganciò alcun diritto antenna, persino il Guglielmi della temeraria Rai Tre scartò il progetto, non ci fu attribuito alcun articolo 28), un po’ perché gli eventi di quei giorni, e un certo clima, ci sembrava meritassero di essere assorbiti nel racconto.
Così quando finalmente iniziarono le riprese, i fatti narrati, quelli inventati, quelli realmente avvenuti, i personaggi reali e di finzione, ci sembravano un magmatico tutt’uno.
C’era da mettere in scena un picchetto di operai e sindacalisti davanti alla fabbrica: ecco quelli veri, ad infittire la manciata di comparse che il magro budget consentiva. C’era da inquadrare in dettaglio una lettera che comunicava al protagonista la Cassa Integrazione: ecco che dai vicini di casa spuntava una lettera originale.
Lavoravamo immersi in un clima intenso, vivace e drammatico, e ci sentivamo benvoluti dalla gente di Piombino: molti, per generosità e forse per disperazione, percepivano che quel film, di cui conoscevano a malapena la trama, con attori giovani, diretti da un regista debuttante, poteva chissà come significare per quel loro mondo una piccola riscossa.
Ero spesso circondato da persone che venivano a raccontarmi il proprio caso personale, quello del loro collega, del loro parente, del loro amico.
Nel mio piccolo mi sentivo animato da un fervore misterioso: non mi sembrava di lavorare ad un film qualsiasi, mi sentivo con un po’ di megalomania investito da una missione importante: dar voce a delle persone la cui esistenza sembrava sempre più marginale, superata dall’incedere crudele della Storia.
Feci in tempo anche a seguire il compimento di un destino felice: quello di C., operaio col riccetto biondo da ventennne, l’aria da discoteca, ma sposato con figli. Era stato uno dei primi ad esser mandato a casa, per intemperanze e per il mancato rispetto di alcune norme di sicurezza. Sul suo caso il sindacato locale armò una piccola battaglia persa in partenza. C. ci veniva dietro durante i sopralluoghi, sperando in un posticino in veste di chissà cosa, dall’attore al manovale. Poi lo persi di vista. Seppi che all’insaputa del sindacato aveva contrattato una buonuscita sottobanco con la direzione, che aveva aperto un’attività in proprio.
Alla fine delle riprese lo vidi di nuovo: andava in giro con un furgone a rifornire bar e negozi di acqua minerale. Era allegro, diciamo pure gasato dalla sua nuova professione: fece al cospetto di tutti un gesto sguaiato verso l’acciaieria (a Piombino te la ritrovi dappertutto, con le sue minacciose proboscidi fumiganti), non mi ricordo se mandò anche uno sputo, o se fece solo il gesto, quello caratteristico. Dodici anni di lavoro lì dentro, la salute rovinata, ma adesso la nuova vita. Intorno circolavano battute, risatine, gomitate, ammiccamenti.
Mi accorsi, tra l’altro, che quello di C. non era affatto un caso isolato. Cioè che la perdita del posto fisso per molti da autentico incubo si era trasformata in un’inattesa liberazione.
Era il caso degli operai più giovani. Erano diventati operai tardi, nel pieno del tramonto dell’epopea delle lotte. Non c’era nessun motivo d’orgoglio ad indossare la tuta verde da laminatore.
La questione era diversa per i più anziani, incapaci d’immaginare per se stessi un’esistenza diversa. Mi vennero raccontati numerosi episodi di gente inattiva piombata in uno stato di profonda depressione. L’episodio del suicidio del cassintegrato-cacciatore è ispirato ad un episodio purtroppo realmente accaduto.
Con Ovosodo tornai per pochi giorni, in una grande fabbrica e mi portai, per gioco, alcuni degli “attori-non-attori” che avevano recitato nella Bella vita. Ma questa volta eravamo lontani dal clima della cronaca, immersi in quello della novella con sfumature da favola.
In quelle poche scene si dà vita ad una specie di scherzosa utopia: i grandi romanzi riassunti a voce dall’ex-studente povero agli operai più anziani, nel fragore degli impianti, tra nuvole di fuliggine. Quasi la celebrazione dell’unico possibile riscatto per uno come Piero, quello della solidarietà con i propri simili.
Senza confessarcelo apertamente, stavamo dando vita al desiderio che certe letture, certe speranze, non siano state del tutto inutili.
Il discorso è ancora diverso per quanto riguarda Baci e abbracci. Gente abituata al lavoro subalterno, che deve darsi da fare per rimanere a galla nell’epoca della competizione. Se ci si guarda intorno scopriamo d’esser circondati da casi insieme comici e penosi.
Il mondo nuovo è già arrivato e c’è gente che a meno di quarant’anni è già da buttar via. Non sanno l’inglese, non sanno usare il computer, ma soprattutto non hanno l’attitudine alla vendita, al gioco ruffiano del promuoversi sul mercato.
E’ a quest’umanità, radunata intorno a un disperato desco natalizio, che abbiamo dedicato il film.
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