Il solo fatto che esca nelle sale è un evento. Da anni, infatti, un documentario italiano non riusciva ad ottenere una distribuzione. E invece, prima a Torino e Milano (poi, via via, in altre città) è di scena Non mi basta mai il docu-film di Guido Chiesa e Daniele Vicari su cinque ex operai della Fiat.
Un film che mescola immagini d’archivio e riprese ad hoc, che racconta di fabbrica, di cottimo, di lotte e di sconfitte. Girato con passione, ironia e militanza. Roba doc, altro che Berlusconi presidente metalmeccanico! Peccato solo per Jovanotti, che non ha mai dato i diritti ad utilizzare nel film la canzone che gli dà il titolo.
“Hai mai visto una pressa? Uno shock”, dice Ebe ricordando il primo giorno di lavoro. Oggi, dopo 15 anni di fabbrica e sei anni di cassa integrazione, fa la fisioterapista. “Devo entrare nella mente di persone che stanno male. Non sembra politica, ma lo è”. Come lei, anche gli altri, Gianni, Pasquale, Vincenzo e Piero, ribadiscono che la politica è ancora parte di loro: nei rapporti personali, nelle scelte, nel quotidiano. Negli incontri di Pasquale, educatore nelle carceri minorili; nei carri allegorici e nelle irresistibili sculture di gommapiuma di Piero, che s’è messo in testa di fare la guerra a Bill Gates; nella cooperativa di pescatori che Gianni ha creato in un paesino della Sardegna, con orgoglio, con la forza del dolore e della determinazione.
Il film racconta e ricostruisce dall’interno dieci anni di Fiat, grazie ai materiali video dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e, soprattutto, ai super 8 girati da uno di loro, Piero Perotti, sindacalista imprevedibile con il pallino della comunicazione visiva.
“E’ stato proprio Piero a contattarci e a darci l’idea”, raccontavano Chiesa e Vicari all’anteprima romana del film, ospitata nella sala di Nanni Moretti e seguita – incredibile ma vero – da un corposo e partecipato dibattito guidato da Rossana Rossanda e Pietro Ingrao. “Piero ci ha messo in contatto con una cinquantina di loro. Quelli che sarebbero diventati i cinque protagonisti del film riassumevano la capacità di molti di loro di rifarsi, letteralmente, una vita. Naturalmente, c’erano in quel piccolo gruppo anche molti sconfitti, persone che la cassa integrazione forzata ha fiaccato e sfiancato”.
Loro cinque, invece, ce l’hanno fatta. Non c’è livore, non c’è rimpianto negli occhi e nelle parole quando ritornano ai tempi bui della fabbrica. Un universo conchiuso, che riempiva di sé tutta la vita, dando confini, identificazione e accesso al mondo del lavoro, privandoli di creatività, tempo, autoaffermazione. Vincenzo: “Il nostro caposquadra ogni sabato controllava la lunghezza dei capelli”. Piero: “Sono entrato a 17 anni. La fabbrica è stata la mia scuola, la Fiat l’università”.
E quando arrivano i giorni – i mesi – dello scontro loro sono lì, in prima fila. Pasquale è uno dei 61 licenziati del ’79, gli altri partecipano alle lotte del 1980: 15mila licenziamenti annunciati, 35 giorni di picchetto, la grigia marcia dei 40mila (“ma erano 15mila”, dice adesso Gianni Usai “preoccupati solo di difendere il loro posto di lavoro”), la votazione per l’accordo sindacale, contestata apertamente nel documentario. Sullo schermo scorrono i tg dell’epoca, Berlinguer, Trentin, il Lingotto prima e dopo. E qualche cifra: i 110mila dipendenti della Fiat auto del 1979 sono scesi nel ’99 a 30mila. E la Fiat si ritrova oggi 6 milioni di mq di fabbriche dismesse.
Chiesa, Vicari e Perotti hanno documentato tutto questo. Ora sta a noi andare a vedere. E tornare, se ci riesce, a pensare.
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