CANNES – Bagno di folla e grandi applausi per Quentin Tarantino, Brad Pitt e Leonardo DiCaprio alla soirée ufficiale. Proiezioni stampa sold out (non c’è stata la replica alla sala del Sessantenario perché il regista ha imposto di proiettare il film solo ed esclusivamente in pellicola). Risposte particolarmente lapidarie da parte del 56enne regista al breve incontro con i giornalisti.
Ma che cos’è C’era una volta… a Hollywood? Senza dubbio il film più atteso e mediatico di questo festival. “E’ una lettera d’amore all’industria del cinema”, sintetizza Leonardo DiCaprio. Ma si respira un po’ di reticenza in conferenza stampa, specie quando si sfiora la vicenda di Sharon Tate. Un po’ per non spoilerare il finale – che poi è la parte più spettacolare e tarantiniana del film – un po’, anche, per glissare sulle possibili reazioni di Roman Polanski (riuscire a sentirlo su questo argomento sarebbe lo scoop degli scoop). “Non ci siamo mai parlati”, risponde secco Quentin, e si limita ad aggiungere “L’ho incontrato un paio di volte in vita mia. Nel film non ne parlo come del più grande regista ma come del più caldo all’epoca. Rosemary’s Baby aveva fatto un incasso enorme, 35 milioni di dollari, e quello è anche il mio preferito tra i suoi film”. Poi ammette: “Nella vicenda dell’omicidio di Sharon Tate mi ha attratto l’impossibilità di dare una spiegazione a questa strage terribile. Ho fatto qualche ricerca su ciò che è accaduto, ho letto un paio di libri e ascoltato alcuni programmi dell’epoca. Ma non mi sono dato una spiegazione, questi giovani hanno compiuto un’azione incomprensibile e questo lato insondabile e sorprendente rende la vicenda affascinante”.
Com’è noto l’8 agosto del 1969 Sharon Tate, al nono mese di gravidanza, era sola nella sua villa (Roman Polanski si era trattenuto a Londra) e invitò a pranzo due amiche, l’attrice Joanna Pettet e Barbara Lewis. In serata andò al suo ristorante preferito, El Coyote, con gli amici Jay Sebring, Wojciech Frykowski e Abigail Folger, facendo ritorno a casa verso le 22.30. Durante la notte fu assassinata nella propria villa insieme ai suoi tre amici dai membri della Charles Manson’s Family. I corpi massacrati di coltellate e torturati furono scoperti soltanto il giorno dopo da una cameriera.
Tarantino fino a un certo punto si mantiene fedele a questi eventi per poi modificarli radicalmente in un andamento ironico e splatter. Nelle scene precedenti, ma quasi per caso, ci porta a fare conoscenza con le accolite di Manson, un gruppo di hippie piuttosto svitate, poco vestite e aggressive. “Una comunità di hippie che vive in un ranch dove qualche tempo prima si giravano western tv e che anche io, da bambino, avevo visitato. Ho voluto mostrare la loro vita quotidiana, portano i turisti a fare delle passeggiate a cavallo in un canyon, sono gentili con loro ma le cose non sono esattamente come appaiono”.
In effetti la vicenda di Sharon Tate è solo una delle (tante) tracce narrative del nono film di Tarantino, che torna sulla Croisette a 25 anni dalla Palma d’oro per Pulp Fiction con una storia più che mai episodica e libera nel racconto. I veri protagonisti sono l’attore televisivo Rick Dalton (DiCaprio) e Cliff Booth (Pitt) la sua inseparabile controfigura e ora anche autista e factotum, da quando a Rick hanno tolto la patente per guida in stato di ebbrezza, due personaggi che sono come due facce della stessa medaglia e fotografano un momento di crisi, il passaggio da un’epoca all’altra. Racconta Brad Pitt, rispondendo a una domanda provocatoria sulla violenza contro le donne molto insistita e grafica: “Nel film non c’è rabbia contro gli individui, ma contro la perdita dell’innocenza. Con la strage compiuta dalla banda di Manson cambiarono tante cose a Hollywood, emerse il lato oscuro della natura umana e credo che il film lo mostri molto bene”. Tarantino, che giura di preferire qualsiasi epoca precedente all’avvento del telefonini, aggiunge un dato personale: “Oggi la penso diversamente rispetto a cinque o dieci anni fa. Non mi ero mai sposato in vita mia, perché attendevo la donna ideale. Adesso è accaduto, ho incontrato Daniella Pick, adesso quindi faccio il punto”. E poi, rivolgendosi alla moglie seduta tra i giornalisti: “Ho parlato bene?”. Invece non accetta di commentare sul personaggio di Sharon Tate, che viene descritto in modo piuttosto bidimensionale.
DiCaprio racconta di essersi identificato con il suo personaggio a cui offre una sensibilità a fior di pelle, qualche lacrima e molta autoironia, come nella scena del dialogo con l’attrice bambina, partner in un western in cui veste i panni del cattivo ma dimentica spesso le battute. “Sono cresciuto nell’industria del cinema e capisco Rick nel suo sentirsi perduto in un mondo che è cambiato. Lotta per ritrovare la fiducia in se stesso, per ottenere un nuovo ruolo. Io sono stato molto fortunato come attore, ma queste cose accadono, l’industria è fatta anche di personaggi di secondo piano”. Per Brad Pitt “i due sono come una sola persona, una persona che deve accettare questa situazione di cambiamento. Sono due outsider, però il mio personaggio, Cliff, è un po’ più navigato e ha superato questa fase di depressione, è in pace con se stesso, accetta quello che la vita gli porta”. E poi i due attori si lodano reciprocamente. “Abbiamo iniziato insieme e abbiamo due carriere parallele, è stato facile improvvisare ed essere in sintonia”, dice Leo. Mentre Brad lo indica come “uno dei migliori in assoluto”.
Interviene Margot Robbie che nel film ha pochi dialoghi e viene descritta soprattutto per la sua bellezza radiosa (questo accade anche per gli altri personaggi femminili, mostrati nel loro essere sexy, ma con scarsa sostanza narrativa e nessuna profondità psicologica). “Ho visto tante cose su Sharon Tate per prepararmi – dice la 28enne interprete di Tonya – ma alla fine la considero un raggio di luce nel film. Quello che mostra, cioè la perdita dell’innocenza, avviene senza parlare, senza bisogno di dialoghi”.
Immancabile la domanda su Sergio Corbucci e l’omaggio allo spaghetti western: “Corbucci – dice Tarantino – è uno dei miei registi preferiti. il mio Django Unchained è costruito proprio come un omaggio al suo Django del ’66. Il personaggio di Rick viene spedito dal suo produttore (Al Pacino, ndr) a Roma per girare un western con Sergio, Rick pensa che sia un regista modesto e si sente esiliato, ma quarant’anni più tardi avrebbe un’idea completamente diversa. Sergio è un maestro”. E chiaramente il film è zeppo di citazioni cinefile, tra cui l’apparizione di un Bruce Lee molto sicuro di sé – autodefinisce il suo corpo come un’arma impropria – che viene sfidato e abbattuto dallo stuntman Cliff.
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