Dopo una carriera solidamente costruita a colpi di remake horror (L’alba dei morti viventi), trasposizioni di fumetti (300, Watchmen) e saghe letterarie per ragazzi (Il regno di Ga’Hoole-La leggenda dei guardiani), Zack Snyder potrà ben definirsi un maestro del cinema d’evasione.
Con Sucker Punch, in uscita con Warner il 25 marzo, il regista, oltre a cimentarsi per la prima volta con un soggetto originale, interamente scritto e ideato da lui, si mette in testa l’idea di realizzare il film d’evasione “definitivo”, mescolando in un ipercinetico frullatore gli ingredienti più disparati: guerriere sexy e zombie nazisti, videogiochi e manga, draghi sputafiamme e arti marziali, soldati meccanizzati, burlesque, Jean-Pierre Jeunet, Baz Luhrmann, Peter Jackson, Tarantino e Aronofsky, Inception e Matrix, Alice in Wonderland, katana e mitragliatori, grafica computerizzata e psicanalisi, intellettualismi, labirinti mentali e narrazione a strati.
E l’immancabile finale a sorpresa in stile Il sesto senso (ma anche Allucinazione perversa, Shadow di Zampaglione, e chissà quanti altri). Che tanto ‘a sorpresa’ poi non è, visto che fin dai primi minuti diversi presagi e segnali lo suggeriscono, e del resto anche il titolo del film, che può essere tradotto come “colpo inaspettato”, in qualche modo lo preannuncia.
Poteva essere un bel pasticcio. E invece, Sucker Punch funziona abbastanza – più forti le implicazioni visionarie e ‘action’, più scontate e manieristiche quelle narrativo-filosofiche – portandosi dietro tutte le caratteristiche del film magari imperfetto, ma con le carte in regola per diventare un cult.
Proprio d’evasione si tratta, a partire dalla trama: la protagonista Babydoll (Emiliy Browning) è internata in un manicomio dove entro pochi giorni verrà lobotomizzata. Ma non ha perso la volontà di sopravvivere. Oltre le costrizioni del tempo e dello spazio, è libera di andare dove la porta la mente e le sue avventure sfumano i confini tra il reale e l’immaginario. Decisa a combattere per la sua libertà, spinge altre quattro ragazze – la schietta Rocket (Jene Malone), la scaltra Blondie (Vanessa Hudgens), la leale Amber (Jamie Ching) e la riluttante Sweet Pea (Abbie Cornish) – a fare gruppo per sfuggire ai loro rapitori, il laido Blue (Oscar Isaac) e l’ambigua Madame Gorski (Carla Gugino). Sfruttando la sua capacità di ammaliare gli animi con la danza, Babydoll ha il potere di proiettare se stessa e le sue compagne in mondi di fantasia che ricordano da vicino i livelli di un videogame, dove, aiutate dal misterioso Wise Man (il “veterano” Scott Glenn), dovranno battersi per trovare una serie di oggetti che permetterà loro di liberarsi dalla tragica situazione in cui si trovano.
“E’ un film sulla fuga – dichiara il regista – sia in senso letterale che figurato. Mostra come la mente possa creare una barriera invalicabile nei confronti del mondo reale, fino a dove possiamo imporci di andare, quali sacrifici siamo disposti a sopportare per uscire da una situazione difficile. Avevo scritto un racconto tempo fa, con un personaggio chiamato Babydoll. Quando ho ripreso a lavorarci, l’idea si è ampliata ed evoluta e ha iniziato a vivere una vita propria”.
“E’ stato liberatorio per Zack creare qualcosa per cui non c’erano aspettative preconcette – aggiunge sua moglie Deborah Snyder, produttrice del film – Questa pellicola poteva essere qualsiasi cosa lui avesse voluto, e anche la storia è cambiata nel tempo”, con l’aiuto del co-sceneggiatore Steve Shibuya. Insomma, anche per l’autore, una bella evasione creativa, prima di imbracciare le redini di un progetto importante – e nuovamente derivativo – come il reboot di Superman supervisionato da Christopher Nolan e interpretato da Henry Cavill.
Ironicamente, la storia, che virtualmente non ha confini di tempo e di spazio, segue invece le regole del teatro aristotelico – presente nel film anche come luogo simbolico – ovvero unità di tempo, di luogo e d’azione. Sogni di fuga a parte, la trama è tutta ambientata in una inaccessibile clinica psichiatrica del Vermont degli anni ’60, uno dei luoghi più restrittivi che si possano immaginare. Forse il periodo storico non è casuale: “La fantasia al potere” era un motto tipico del ’68, qui filtrato attraverso l’estetica dell’era Playstation e un femminismo che resta molto di facciata, dato che le ragazze si ribellano, sì, ma sempre discinte restano. Il che nulla toglie all’aspetto ludico del film, che come “piano d’evasione”, non c’è che dire, centra il colpo. Inaspettatamente.
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