‘Stromboli terra di Dio’, Isabella Rossellini: “Un film su un’Italia che non esiste più, nel bene e nel male”

Alla Festa del Cinema il capolavoro restaurato da Luce Cinecittà, Cineteca di Bologna e CSC-Cineteca Nazionale


Il cinema di mio padre era il cinema ‘rovinato’, adesso non lo è più grazie a Cinecittà, a Gian Luca Farinelli e a tutto questo movimento di recupero e restauro del cinema”.  Isabella Rossellini introduce così Stromboli terra di Dio di fronte al pubblico che la applaude alla Casa del Cinema,  nell’ambito della retrospettiva di film a lei dedicata in occasione del Premio alla Carriera assegnatole dalla Festa del Cinema di Roma 2023.

“È il primo film che papà ha fatto con mia mamma, i giornalisti speculano su una lettera scritta da lei nel ’48, che voleva semplicemente essere spiritosa” – continua l’attrice e regista.  “Lei che era l’attrice del momento, molto conosciuta a Hollywood, aveva visto Roma città aperta e Paisà, scrisse a mio padre che le sarebbe piaciuto lavorare con lui. Per essere spiritosa scrisse ‘io sono svedese, parlo bene l’inglese ma in italiano so dire solo ‘ti amo’: questo perché in un film che aveva fatto c’era una donna italiana che morendo diceva ‘ti amo’ a suo marito. La stampa ci ricamò sopra, dicendo che si era innamorata di lui solo guardando i suoi film, ma non è andata cosi: semplicemente, quando si sono incontrati e hanno lavorato insieme, si sono anche innamorati”.

È proprio sua madre, Ingrid Bergman a illuminare lo schermo in questa diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma con una delle sue interpretazioni più straordinarie, nel film che segna l’inizio del suo memorabile percorso a fianco di Roberto Rossellini. Ma non solo: Stromboli terra di dio dà il via a una ricerca ancor più complessa per uno dei più importanti registi del neorealismo. Con la cosiddetta ‘trilogia della solitudine’, che include Europa ’51 e Viaggio in Italia, inizia infatti una nuova fase dell’opera rosselliniana, un pezzo di storia del cinema italiano tra i più controversi – ma non meno interessanti – che riemerge con energia dalla sciara di fuoco di un vulcano.

“Io ho un master in scienze ambientali e etologia e proprio da etologa ho scelto questo film”, dice Isabella Rossellini a CinecittàNews, fuori dalla sala. “Quando lo rivedo, il soggetto lo trovo bellissimo, soprattutto queste immagini di un’Italia che non esiste più, o forse esiste ancora, ma solo in piccolissimi borghi. E questo enorme cambiamento della natura, benché il vulcano non lo abbiamo ancora saputo spegnere, lui domina ancora. Adesso Stromboli non è più l’isola misera e primitiva che si vede nel film, è un luogo di villeggiatura e di benessere. Però la scena della tonnara è girata così bene, c’è la crudeltà ma c’è anche la sopravvivenza, perché questa gente viveva di questo tonno, grazie alle sue proteine. È una scena anche molto truculenta, ma io la trovo bellissima: mi ha colpito soprattutto perché questa abbondanza di pesci non esiste più, il tonno è in via di estinzione. Tante cose sono cambiate, nel bene e nel male”.

Tornando alla lettera di Ingrid Bergman, molto più interessante è quella che Rossellini le scrisse in risposta, per proporle di recitare nel suo nuovo film, descrivendole in dettaglio l’idea ispiratrice e quel che sarebbe dovuto diventare, anche grazie alla sua interpretazione. “Questa l’ho ritrovata e voglio leggervela” – continua in sala Isabella Rossellini. “Papà, che era abituato a lavorare con Anna Magnani, Aldo Fabrizi, attori ma anche ‘non attori’ come il neorealismo dettava, cercava di trovare il modo di infilare una biondona con gli occhi azzurri in un suo film. Una lettera che ci racconta un po’ anche come erano fatti i suoi copioni, non erano tradizionali ma c’erano, eccome”:

“Cara signora Bergman, ho atteso un po’ prima di scriverle perché volevo essere sicuro di quello che le avrei proposto. Prima di tutto, però, voglio che lei sappia che il mio modo di lavorare è estremamente personale. Evito qualsiasi sceneggiatura che, a mio parere, limita enormemente il campo d’azione. Ovviamente parto da idee molto precise e da una serie di dialoghi e di situazioni che scelgo e modifico nel corso della lavorazione. A questo punto non posso fare a meno di confessarle che sono molto eccitato all’idea di lavorare con lei. Un po’ di tempo fa… credo che fosse la fine di febbraio, percorrevo in automobile la Sabina, una zona a nord di Roma, quando vicino alle sorgenti del Farfa, la mia attenzione venne attirata da una scena insolita. In un campo circondato da un’alta rete in filo spinato alcune donne si aggiravano come agnelli in un pascolo. Mi avvicinai e mi accorsi che erano straniere, jugoslave, polacche, rumene, greche, tedesche, lettoni, lituane, ungheresi, che, costrette a fuggire dai loro paesi d’origine a causa della guerra, avevano girovagato per l’Europa, conoscendo l’orrore dei campi di concentramento, del lavoro coatto e dei saccheggi notturni. Erano state facile preda dei soldati di venti nazioni diverse finché erano state radunate in quel campo dove attendevano di essere rispedite a casa. Una guardia mi ordinò di allontanarmi. Erano indesiderabili ed era proibito parlare con loro. Dietro il filo spinato, all’estremità più lontana del campo, una donna bionda, tutta vestita di nero, se ne stava appartata dalle altre  e mi guardava. Incurante dei richiami delle guardie mi avvicinai. Non sapeva che qualche parola di italiano, arrossì per lo sforzo di parlare. Era lettone. Negli occhi chiari si leggeva una disperazione muta e intensa. Infilai la mano nella barriera di filo spinato e lei me l’afferrò come un naufrago che si aggrappa a un relitto. La guardia si avvicinò con aria minacciosa. Tornai alla macchina. Il ricordo di quella donna mi ossessionava. Riuscii a ottenere il permesso di visitare il campo, ma lei non c’era più. Il comandante mi disse che era fuggita. Le donne più anziane mi diedero un’altra versione. Se ne era andata con un soldato, originario delle isole Lipari. Si sarebbero sposati e così lei avrebbe potuto restare in Italia. Cosa ne dice di andare a cercarla insieme?”

Nella Sala Cinecittà della Casa del cinema si spengono le luci. La drammatica musica, quasi solenne, e l’impeccabile bianco e nero dichiarano fin dai primi fotogrammi l’età del film, pur se il campo profughi italiano circondato dal filo spinato ci riporta subito e tristemente al presente, in un flash più che paradossale: Ingrid Bergman è Karin, la giovane lituana internata lì con le altre donne straniere scampate agli orrori della seconda guerra mondiale. Vorrebbe emigrare in Argentina, come tanti giovani in quel periodo, ma il visto le viene negato. Per questo, nonostante non ne sia affatto innamorata, la sua sete di libertà le fa accettare la proposta di matrimonio in stretto dialetto siculo di Antonio, un giovane pescatore di Stromboli ex prigioniero di guerra, conosciuto al di là della rete del campo. Purtroppo, già dallo sbarco, Karin capisce che le condizioni di vita che le offre l’isola non corrispondono affatto alla libertà che si era immaginata, tutt’altro: dopo l’eruzione del 1930 Stromboli è un ammasso di pietre vulcaniche, i pochissimi abitanti che sono rimasti sono burberi e analfabeti, il loro nido d’amore è una bicocca diroccata.

“Voglio andare via da quest’isola maledetta! Perfino quelli che ci sono nati sono scappati!” – dice Karin ad Antonio dopo l’ennesimo rigurgito di lava incandescente del vulcano, che buca il tetto della loro casa. “Chista è casa mia e tu sei mia moglièra. Stai ccà pecché ci sto io”, le risponde il marito.

Giorno dopo giorno, Karin è esasperata dall’ostilità della gente del posto e dalle incomprensioni continue con il giovanissimo Antonio. Il ragazzo è perdutamente innamorato ma ‘primitivo’ – come lei stessa lo appella – e pur lavorando giorno e notte per cercare di soddisfarla, è incapace di esprimersi se non con la violenza e la bigotta sottocultura maschile del tempo, nelle isole ancor più marcate che nel sud Italia. Finché la giovane, incinta e chiusa prigioniera in casa, decide di fuggire: vuole arrivare dall’altra parte dell’isola, dove potrà imbarcarsi, scalando e oltrepassando la vetta del vulcano. Ma disperata e in lacrime dopo una notte di stenti, sdraiata sotto le stelle tra i fumi della sciara, invocherà l’aiuto divino.

Per la sua interpretazione, Ingrid Bergman, che recita con la sua voce sia nella versione originale – girata in inglese – che in quella italiana in cui si auto-doppiò, vinse il Nastro d’Argento.  Gli altri attori erano quasi tutti non professionisti, incluso Mario Vitale, inizialmente ingaggiato dalla produzione come manovale, che interpreta il giovane Antonio, in un suggestivo incontro attoriale con l’attrice svedese.

“La forza di questo film unico e irripetibile” – scriverà in seguito Ennio Flaiano –  “è nella sua straordinaria economia narrativa, nella descrizione dei luoghi e dei personaggi che non risultano contaminati di letteratura e di estetismo, non seguono cioè le sorti di una sceneggiatura fatta in città, ma quelle di un’idea lungamente meditata e risolta sul posto in immagini, in episodi che esprimono la loro drammaticità dall’interno e sui quali mai grava l’ombra del compiacimento, del mestiere, e nemmeno la preoccupazione di piacere al pubblico. Tutto il suo film, per equilibrio narrativo è all’altezza dell’ultimo indimenticabile episodio di Paisà: ma la mira segreta questa volta è più lontana e più alta. Stromboli terra di Dio non sarebbe stato realizzato senza la presenza di Ingrid Bergman, che ha rinunciato dal canto suo alle grazie delle eroine per assumere le durezze di una persona qualsiasi. Quest’attrice, che appare oggi così nuova, come liberata da un equivoco che ne offuscava il valore, domina in realtà il racconto, vi porta una coscienza, un’educazione artistica delle più severe. Nell’ultima scena si può restare stupefatti della sapienza del regista, ma si resta incantati della forza, della convinzione che Ingrid Bergman ha saputo dare al suo travagliato personaggio”.

Stromboli terra di Dio, uscito nelle sale nel 1950, è oggi proiettato nella versione italiana restaurata nel 2012 da Luce Cinecittà, Cineteca di Bologna, CSC-Cineteca Nazionale: un restauro digitale realizzato a partire dai migliori elementi disponibili, un controtipo negativo combinato conservato presso Cinecittà.

L’iniziativa voluta dalle tre istituzioni del cinema italiano è parte del ‘Progetto Rossellini’, mirato a riscoprire e mostrare nella sua veste più meritata l’opera di un autore pietra miliare dell’arte cinematografica: Roberto Rossellini. Un piano di restauro digitale complessivo di una parte centrale, e fondamentale, della filmografia del cineasta, e nella sua promozione e diffusione a livello mondiale. Con Stromboli terra di Dio, infatti, sono 10 in totale i titoli rosselliniani restaurati grazie al progetto, che rappresentano il cuore pulsante del suo cinema: Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, L’amore, La Macchina ammazzacattivi, Viaggio in Italia, La paura, India, La forza e la ragione.

Dopo la scansione, le immagini sono state stabilizzate e pulite digitalmente eliminando i segni del tempo: spuntinature, righe, graffi e segni visibili di giunte. La posa ha cercato di restituire la lucentezza e la ricchezza della fotografia originale. Per il suono, dopo l’acquisizione si è potuta effettuare la pulizia digitale e la riduzione dei rumori di fondo causati dall’usura del tempo, mantenendo però la dinamica e le particolarità del suono originale.

Giovanna Pasi
26 Ottobre 2023

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