“Usciamo a Natale e più che mai le uscite di Natale riflettono il metodo italiano, si esce se si è potenti. Ma Pride merita di arrivare ovunque, in qualsiasi piccolo centro, è uno dei film di cui siamo più orgogliosi, il più bello della Teodora insieme ad Amour ed è un film necessario”, così il distributore Cesare Petrillo parla della commedia britannica di Matthew Warchus, film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs, diventato un grandissimo successo in patria. Pride attinge ancora una volta all’epoca del thatcherismo, inesauribile riserva di storie per il cinema, per raccontare un episodio realmente accaduto, ma fortemente simbolico. Un gruppo di attivisti del movimento gay e lesbico decise di iniziare una raccolta di fondi per sostenere i minatori del Galles che da molti mesi erano in sciopero contro le politiche della Lady di Ferro e la chiusura delle miniere. I rudi gallesi, dapprima ostili verso un mondo che sembrava tanto lontano dal loro – ma se è vero che ogni cinque persone una è omosessuale questo dovrà valere anche per il minatori del Galles, come si dice nel film – finiscono per intrecciare rapporti di amicizia e solidarietà inediti. Fino alla scelta di partecipare al Gay Pride londinese del 1985.
“Il loro sciopero – dice il regista – non era solo questione economica, bensì uno scontro chiave in una guerra ideologica più ampia: il bene comune contro l’interesse personale, la società contro l’individuo, il socialismo contro il capitalismo. I protagonisti di Pride credono nella forza dell’unione, una solidarietà universale in nome di un orgoglio che è diritto di tutti”. Ma il film parla anche del senso di esclusione e discriminazione vissuto dagli omosessuali persino all’interno della propria famiglia. “L’idea di non essere accolto dai propri cari e nel proprio paese natale, come accade al mio personaggio, è devastante”, spiega Andrew Scott, uno degli interpreti. “All’epoca il modo in cui gli omosessuali venivano dipinti sui giornali era terribile e questo spiega la preoccupazione dei genitori quando scoprivano di avere un figlio gay. Finché non accetteremo la varietà delle forme di sessualità, non potremo davvero progredire”.
Interpretato da un gruppo di valenti attori britannici, tra cui i veterani Bill Nighy e Imelda Staunton, con Paddy Considine, e i più giovani Andrew Scott e George Mackay, questi ultimi a Roma insieme allo sceneggiatore Stephen Beresford, Pride è in uscita l’11 dicembre.
Beresford, come ha saputo di questa vicenda?
Ne ho sentito parlare ben 22 anni fa e da subito ho pensato che sarebbe stata perfetta per un film. È una storia incredibile: omosessuali e minatori uniti per combattere insieme, con un finale potentissimo. Spinto dalla curiosità ho fatto delle ricerche, trovando pochi documenti, poi mi è capitato di leggere un libro che parlava anche di Mark Ashton, uno degli organizzatori di Lesbians and Gays Support the Miners, quindi ho visto il video che loro stessi avevano girato e infine ho conosciuto i veri protagonisti. A quel punto ho capito che c’era ben poco da inventare, che quella storia era perfetta.
Cosa rendeva questa vicenda tanto incredibile?
L’enorme differenza tra queste due comunità. Tutti i membri del LGSM avevano abbandonato le comunità operaie a cui appartenevano, sapendo che una volta dichiarata la propria omosessualità non sarebbero più stati accettati. Ci sono molte cose che oggi diamo per scontate, dimenticando come tutto fosse diverso una volta. La serata Pits and Perverts, col concerto per raccogliere fondi per i minatori, fu uno dei primi grandi eventi condivisi da gay e etero.
È stato difficile trovare i finanziamenti per una storia per certi versi inattuale, in un’epoca come la nostra, di scarsa solidarietà e acceso individualismo?
Ci sono voluti appunto vent’anni. Tutti si appassionavano a questa storia ma nessuno se la sentiva di investirci dei soldi. Temevano che riguardasse solo i gay o solo i gallesi o soltanto i minatori, non capivano che è una storia universale, che parla di esseri umani. Poi è arrivata la Pathè e anche il regista Matthew Warchus.
Come mai, secondo lei, l’era Thatcher ha prodotto tanto ottimo cinema?
Quando c’è qualcosa di serio contro cui lottare, nascono fenomeni culturali Importanti e così è stato con la Thatcher al governo in Gran Bretagna. Oggi in Europa i politici sono spariti, sono le banche e le multinazionali a governarci e c’è molta maggior rassegnazione. Pride parla di solidarietà, apertura e superamento delle differenze. Principi che si possono applicare al tema dell’immigrazione e dell’apertura delle frontiere.
Il film in Gran Bretagna è stato un grande successo.
Sì, ci sono state reazioni incredibili, molta commozione, il che per gli inglesi è qualcosa di eccezionale, perché hanno al massimo tre o quattro emozioni. Alla prima proiezione che abbiamo fatto per i vecchi membri di LGSM e gli ex minatori, si sono ritrovati tutti insieme e hanno fatto grandi discorsi, proprio come un tempo.
C’è una parte della comunità gay, alla fine del film, che si tira indietro rispetto alla politica e considera il Pride come un’occasione di festa ma non altro.
E’ l’inizio di un cambiamento profondo rispetto agli anni ‘80. Oggi tendiamo tutti a essere più isolati. Ma la gente non è stupida e il concetto di solidarietà, che è arrivato ai minimi storici, sta rinascendo. Viviamo in un mondo più virtuale e magari ci impegniamo online anziché scendere in piazza. Però i giovani hanno reagito bene al film, per loro l’idea di solidarietà è addirittura elettrizzante.
C’è qualche storia che è rimasta fuori dal film e che avrebbe voluto raccontare?
La trasferta italiana di alcuni di loro. Tornarono con molti soldi e molto cibo, tra cui dei pacchi di pasta e dell’olio d’oliva che portarono ai minatori gallesi. Quelli non avevano mai visto del cibo italiano e non sapevano cosa farsene. Alla fine decisero di friggere i fusilli.
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