Stéphane Brizé: “Lavoratori in guerra, ecco l’immagine mancante”

L'immagine che spiega la rabbia dei lavoratori espropriati del proprio ruolo da un capitalismo che punta a massimizzare i profitti è al centro del film di Stéphane Brizé


L’immagine mancante, quella che non arriva mai sui media. Quella che spiega la rabbia dei lavoratori espropriati del proprio ruolo da un capitalismo che punta a massimizzare i profitti, con delocalizzazioni e chiusure di aziende sane. E’ quanto racconta In guerra, il nuovo film di Stéphane Brizé che torna, a tre anni da La Loi du Marché, a scandagliare le ingiustizie di un sistema economico che sembra non rispettare più alcuna regola o accordo. E’ quello che accade ai 1.100 dipendenti della Perrin Industries, che dopo aver accettato una drastica riduzione di salario per salvare il posto di lavoro, si trovano di fronte alla decisione – unilaterale e contro ogni precedente accordo – di chiudere i battenti. Inizia una dura lotta sindacale in cui è impegnato fino al midollo Laurent Amédéo, uno di quei personaggi che ti restano addosso anche molto tempo dopo la visione. Merito della complicità assoluta tra l’interprete Vincent Lindon e il regista, alla quarta collaborazione. Lindon, che per La Loi du Marché aveva ottenuto il premio a Cannes, affronta il ruolo con dedizione totale, rendendo le sfumature di questo personaggio eroico, da tragedia greca: ed è l’unico attore in un cast di non professionisti.

Il film, uscito sorprendentemente senza premi dal Festival di Cannes, arriva ora in sala con Academy Two dal 15 novembre (alcuni cinema lo programmano in originale e vale la pena di vederlo non doppiato). Per Lindon, che preferisce non parlare del suo metodo recitativo ma accetta volentieri il confronto sui temi della politica che con tutta evidenza lo appassionano, il problema principale del nostro pianeta, oltre alla sovrappopolazione, è l’ineguaglianza: “Il mondo è governato da un 1% che detiene il 90% della ricchezza. Il mio sentimento mi impone di schierarmi dalla parte di chi ha bisogno cercando di risvegliare più coscienze possibile. Magari non cambieremo le cose con un film, ma è meglio tentare”. 

Brizé, mi sembra che il tema chiave del film sia l’impotenza dei lavoratori. Nei secoli scorsi, la classe operaia aveva un potere contrattuale, esisteva una dialettica, una lotta di classe appunto. Tutto questo è scomparso nel mondo contemporaneo. 

Condivido. È una delle grandi vittorie del potere e del mondo finanziario aver cancellato l’idea stessa della lotta di classe, che invece non è mai cessata. Da qualche decennio, i potenti l’hanno resa polverosa, ogni volta che si parla di lotta di classe appare qualche sorriso sarcastico. Per preparare il film, ho visto tanti documentari: raccontano tutti la stessa storia, persone che si uniscono guidate da un leader per opporsi e per fare delle richieste. Un tempo si chiedevano migliori condizioni di lavoro o aumenti salariali, oggi si parla solo di salvare il posto di lavoro.

Perché cancellare il concetto stesso di lotta di classe?

Far sparire le parole, significa cancellare le esigenze e i diritti di una parte della popolazione. Di recente ero al Festival di Deauville, città borghese per eccellenza, e mi sono trovato a litigare con un politico, molto macroniano, che mi ha detto con condiscendenza: “Lei fa riferimento a cose che non esistono più. Si può parlare di condizioni sociali ma non di classi”. Invece non è così, la lotta di classe esiste e i ricchi l’hanno vinta. Il mio film testimonia l’indecenza del meccanismo finanziario dominante. Ho fatto il film, in un certo senso, per legittimare la collera dei salariati che cresce dopo settimane e mesi di tentativi vani di trovare un accordo. 

I lavoratori, dunque, sono in guerra.

Tutto è costruito a detrimento della maggioranza: gli operai, ma anche anche i lavoratori intellettuali, gli insegnanti, i giornalisti, gli impiegati… E i dirigenti, che rappresentano i datori di lavoro, sono i prossimi sulla lista. Non faccio un discorso ideologico. La guerra c’è, ma non sono stati i salariati a dichiararla, è stata la classe dominante. Il film mostra lo squilibrio totale nel rapporto di forza e la sconfitta totale. Grazie alle leggi fatte negli ultimi decenni sia dai governi di destra che di sinistra, oggi sono state smantellate tutte le tutele e si chiudono imprese che sono in attivo. Anzi, vengono chiuse proprio perché guadagnano bene, per farle guadagnare ancora di più. Un tempo c’era un rapporto di forza e si potevano ottenere dei miglioramenti. Oggi no. Non bisogna stupirsi se gli estremisti prevalgono, da Marine Le Pen a Salvini, da Bolsonaro a Orban.

Prevalgono risposte dettate dal populismo.

Il nostro mondo si fonda sulle paure e le paure sfociano nel voto. Quando costruisci tutto sulla paura, questo porta a votare per gli estremisti che danno risposte semplicistiche, indecenti, a volte grottesche. Noi qui ci stiamo concedendo il tempo di riflettere, ma c’è gente che non ha questo tempo. Se si fondano le scelte solo sulla paura, si va verso la tragedia.  

Lei non sembra intravedere speranze. Come ci mostra anche il finale tragico, da non rivelare, ma che arriva come un pugno in faccia allo spettatore.

Nel film ci sono tutti gli ingredienti della tragedia. Sono partito dalle immagini spettacolari dei dirigenti della Air France aggrediti dai lavoratori, con la camicia strappata. Sono immagini allucinanti, e l’allora premier Manuel Vals aveva definito quei lavoratori come dei delinquenti. Ma io non credo che si siano alzati la mattina per strappare la camicia a quei dirigenti. Sono stati zitti per anni e poi la collera è esplosa. Però l’immagine di come cresce questa rabbia non l’abbiamo mai vista. Allora mi sono detto che bisognava costruirla. E’ l’immagine mancante delle news.

Il film è molto avvincente eppure tutto costruito sui discorsi politici. Inoltre ha messo in scena un escalation di rabbia che monta gradualmente sia nel personaggio di Amédéo che negli altri lavoratori.

Sì, con Olivier Gorce, lo sceneggiatore, abbiamo lavorato sulla parola di ciascuna parte: i politici, i dirigenti, i salariati. Ciascuno si esprime e sarà poi lo spettatore a dare un suo giudizio. Cerco di non tradire i punti di vista delle diverse persone, di non ridicolizzare nessuno e dare a tutti il proprio spazio. Se avessi ridicolizzato i dirigenti o i politici mi sarei dato la zappa sui piedi, mi avrebbero attaccato. All’inizio avevo chiari due punti: la partenza con la chiusura della fabbrica e la fine, con l’esplosione di distruttività. Sapevo che le singole scene erano necessarie e che avrebbero portato alla violenza, ma in mezzo c’erano anche momenti di speranza.

A proposito di linguaggio, la parola chiave è “competitività”.

Sì, e “mancanza di competitività”. Questo è molto penalizzante per i lavoratori perché li colpevolizza. Questa parola pronunciata dai padroni maschera la realtà perché è tutta e solo questione di profitti.

Come ha lavorato con Lindon sul tema della rabbia, così centrale nella messinscena?

Lui è il solo professionista, ma ho comunque usato la sua collera. In questo è simile a me, è nato arrabbiato. Siamo cresciuti in due contesti sociali diversi, lui è un borghese, io vengo da una famiglia modesta, ma condividiamo questa collera e l’indignazione per l’ingiustizia. Gli altri attori sono tutti sindacalisti e conoscono bene queste situazioni, hanno tutti un’idea ben precisa della giustizia sociale. Così il dispositivo del film si avvicina il più possibile alla vita.

Il personaggio di Amédéo è piuttosto diverso da quello de La Loi du Marché nonostante le affinità tra i due film.

Nei tre film che ho fatto prima di questo con Vincent, compreso La Loi du Marché, lui era taciturno, quasi muto. Per la prima volta qui è un uomo che prende la parola, si vede che per noi due era il momento di aprirci. Non è una scelta calcolata, ma sono sicuro che il prossimo personaggio sarà ancora diverso, andremo avanti.

Credo che lei abbia molto rinnovato l’estetica del film politico rispetto alla forte tradizione di Ken Loach o dei Dardenne. 

È complicato per me posizionarmi rispetto agli altri autori. Sicuramente io ho fatto i conti con i media e la televisione perché oggi, se c’è un conflitto sociale, arrivano subito le tv. I salariati hanno bisogno dell’immagine mediatica, ma è quella stessa immagine che poi li uccide. Fa parte della dialettica della vita: ciò che ci rende forti può anche renderci deboli… Onestamente non mi sono posto il compito di rinnovare il cinema politico, ma avevo ben chiaro di non voler annoiare gli spettatori. Volevo che il film fosse appassionante come un thriller.

Lei sembra porsi molto la questione della verità della rappresentazione.

E’ così. Per esempio i servizi tv che si vedono nel film sono fatti apposta, anche se con veri operatori tv, come se non ci fosse un artificio e molti spettatori mi hanno chiesto dove avessi recuperato quelle immagini. Pensavano che fossero veri tg. Ma la verità non passa per forza dalla ripresa del reale. Qualcosa di totalmente costruito può essere contemporaneamente vero, come i film di Chaplin.

Molti sono stati delusi dal mancato premio a Cannes.

Sì, vista l’accoglienza al film, c’è stata una certa delusione… La Palma d’oro a Kore-Eda è condivisibile, mentre altre scelte sono sembrate discutibili. Ammetto di essermi stupito, ma non voglio fare un discorso auto referenziale. Diciamo che un film come In guerra aveva bisogno dell’aiuto di un premio, perché gli operai e ciò che subiscono merita di stare il più possibile sotto i riflettori.

 

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07 Novembre 2018

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