Se far ridere è un’arte (e di sicuro lo è) Stefano Vanzina ne è stato il depositario per quasi quarant’anni e quasi 80 film. Assai sottovalutato dalla critica, ha diretto decine commedie capaci di fotografare vizi e virtù degli italiani, piene di battute folgoranti e gag irresistibili, interpretate da tutti i più grandi tra i nostri attori. Il suo soprannome, Steno, è diventato un marchio di fabbrica. Ora una mostra, nel centenario della nascita, ne ripercorre le gesta attraverso documenti, immagini, filmati, molte cose uscite dagli archivi di famiglia, quelli dei due figli Carlo ed Enrico, a loro volta cineasti, che hanno dato accesso al Vanzina “segreto”, mentre a Istituto Luce Cinecittà, Cineteca di Bologna, Studio EL Cinecittà e Latitudine è toccato fornire materiali pubblici.
La mostra è ospitata fino al 4 giugno alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e si intitola appunto “Steno, l’arte di far ridere. C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora”. “Papà ne sarebbe entusiasta – dice Carlo – per tanti anni snobbato perché faceva un cinema popolare, era un vero artista, come dimostrano i suoi disegni, anche quelli di quando era appena un ragazzino. Questo omaggio è un po’ come lui, non è pretenzioso ma racconta molto”.
Tra le cose più affascinanti del percorso espositivo c’è proprio il Diario Futile, una sorta di Zibaldone, opera pop ante litteram (siamo nel ’42-43) che affastella su un grande librone riflessioni, battute, ritagli di giornale e immagini e che per la prima volta esce da casa Vanzina, ma che potrebbe un giorno diventare un libro. Tanto che Enrico lo paragona al Libro dei sogni di Fellini. “Il mondo di papà – racconta – nasce proprio dal disegno. Decisiva fu l’esperienza al Marc’Aurelio, la rivista satirica dove conobbe Fellini e dove la parola entrò nel suo universo accanto all’immagine”.
Stefano Vanzina era nato nel 1917 ad Arona, sul lago Maggiore. Rimasto presto orfano di padre, si era trasferito a Roma con la mamma, la contessa Boggio, che dilapidò il patrimonio alle carte e lo portò a vivere in una pensioncina del quartiere Prati. Fu lei a inventare quel soprannome, Steno, che gli portò fortuna, mentre la zia Laura, che lo prese con sé in casa, ne fece un intellettuale mandandolo a studiare all’esclusivo Liceo Mamiani, dove arrivava ogni giorno a piedi da via Savoia non avendo i soldi per il tram.
Una vita avventurosa che ne fa un artista a tutto tondo: scrittore, sceneggiatore, autore di Caroselli per la tv, sceneggiatore oltre che regista (tra le chicche il dattiloscritto del copione di Un americano a Roma con le aggiunte e le correzioni a penna). Tra Al diavolo la celebrità del 1949 e la serie tv Big Man dell’88, anno della morte arrivata per un ictus, non si ferma mai, arrivando in alcuni anni, come il 1962, a girare addirittura quattro film. Sono 75 in totale, dalla commedia al poliziottesco, che è a tutti gli effetti una sua invenzione. Lavora con tutti i più grandi, Totò e Alberto Sordi sono i suoi preferiti, ma tutti passano davanti al suo obiettivo. Aldo Fabrizi e Franca Valeri, Diego Abatantuono e Christian De Sica, Monica Vitti e Gigi Proietti. E la sua storia è anche la storia del cinema italiano tout court. Tra le sue tante imprese c’è anche un romanzo pubblicato dall’amico Leo Longanesi dietro pseudonimo e intitolato Le memorie del cameriere di Mussolini, e c’è il volume postumo Sotto le stelle del ’44, diario di quell’anno fatidico per l’Italia.
Secondo Piera Detassis, “Steno era un autore che non se la tirava, eppure ha inventato il miglior Totò e il miglior Sordi e basterebbe il mitico ‘maccarone m’hai sfidato!’ per dirne la grandezza”. Così suona particolarmente ridicolo quel lapidario giudizio critico apparso su un grande quotidiano: “Febbre da cavallo presenta il peggiore dei difetti: non fa ridere”.
Curatori della mostra, organizzata da Show Eventi in collaborazione con Cityfest (Fondazione Cinema per Roma) e Istituto Luce Cinecittà, con il sostegno della Siae, sono Marco Dionisi e Nevio De Pascalis.
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