CANNES – Cosa accade alla realtà proiettata? È questo il quesito su cui si arrovella una persona che del cinema ha fatto la sua vita: Arnaud Desplechin. Il regista francese torna nella sua seconda casa – il Festival di Cannes che lo ha ospitato sette volte in Concorso e una in Un Certain Regard – per raccontare il luogo che è diventato la sua prima casa fin dal momento in cui ha visto sul grande schermo un film di Ingmar Bergman: la sala cinematografica. Nelle Special Screenings del 77° Festival di Cannes, infatti, troviamo il suo ultimo film Spectateurs! (Filmlovers), una vera e propria lettera d’amore al cinema che lo ha formato, che gli ha dato una passione, un’identità, un lavoro, una ragione per cui vivere.
Dall’arte pittorica, alla fotografia, fino al cinema (“finalmente!”), capace di coniugare il tempo e il movimento, Desplechin alterna l’approccio didattico– raccontando le prime fasi della storia del cinema – a uno prettamente personale, in cui si lascia andare alla speculazione intellettuale e all’introspezione emotiva. Per riuscirci si affida a tutti gli strumenti del documentarista (voce narrante, immagini di repertorio, interviste) e a quelli del cinema di finzione. Spectateurs! è, infatti, anche la storia di Paul Dédalus, un personaggio vistosamente autobiografico, che evoca nel nome l’antropologo protagonista del film del 2015, I miei giorni più belli. “Paul Dédalus è una persona che ama ammirare le persone che lo circondano. Quindi ho usato lo stesso cognome, che allude anche alla narrazione labirintica” afferma il regista.
Similmente a quello che ha fatto Steven Spielberg in The Fabelmans, Desplechin proietta se stesso nel personaggio di Paul, raccontando, dall’infanzia fino all’età adulta, la sua vita, che sarà sempre irrimediabilmente legata al mondo del cinema. La scoperta della magia della sala, la passione che cresce in età adolescenziale e che si fonde ai primi amori giovanili, la scelta di farne un percorso di vita, fino alla realizzazione professionale, quando il volto di Paul Dédalus torna a essere quello di Mathieu Amalric, lo stesso attore de I miei giorni più belli.
Il film è diviso in capitoli, espediente che conferisce un ritmo molto variegato. I momenti di finzione fanno da legante ad altri in cui l’autore cerca in tutti i modi di andare a fondo nel mistero del cinema, a partire dalle interviste a un variegato campione di spettatori (da qui il titolo del film) di ogni genere ed età, che raccontano il loro rapporto con la settima arte. Paura e pianto sono alcune delle parole chiave che ritornano, sottolineando la capacità del cinema di regalare emozioni intense e indimenticabili. Nel film troviamo una collezione di riferimenti cinematografici e non: da Hervé Bazin a Stanley Cavell, da Francis Ford Coppola fino ad arrivare a un commosso omaggio all’attrice nativa americana Misty Upham.
La sala ci riconcilia con il mondo. È un luogo erotico. Uno spazio significante. Un esperimento di democrazia. Sono tante le definizioni che si accumulano nel corso del film, in un processo di scoperta, a volte un po’ retorico, che resta volutamente incompiuto. A dare una risposta personale, unica e ogni volta diversa all’enigma, saranno, in quanto tali, gli stessi spettatori.
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