Colpisce nel segno l’esordio hollywoodiano di Stefano Sollima che firma Soldado, nuovo capitolo dell’annunciata trilogia scritta da Taylor Sheridan, iniziata con Sicario di Denis Villeneuve. Un’eredità che poteva essere spinosa per il regista di A.C.A.B. e Suburra, conosciuto all’estero soprattutto per il suo Gomorra- La serie, che però riesce, con la maestria e lo sguardo peculiare del cinema italiano d’autore, a disegnare un intenso action movie, senza sguardo morale e moralizzante, in cui i due protagonisti sono antieroi chiamati a definire e a confrontarsi con un universo senza regole, in un confine, quello tra Messico e Stati Uniti, che non è solo geografico e politico, ma soprattutto etico. Un mondo di frontiera spietato, dominato da caos e lotta per la sopravvivenza, dove si intrecciano il mercato della droga, la politica estera americana, il mondo del terrorismo islamico e l’immigrazione clandestina.
Il film vede di nuovo insieme il premio Oscar Benicio Del Toro, nel ruolo di un misterioso procuratore diventato killer dopo che un boss del cartello ne ha sterminato la famiglia, e Josh Brolin, agente della CIA dai metodi poco ortodossi costretto a rivolgersi a lui per combattere i narcos. Prodotto da Thunder Road Pictures e Black Label Media, Soldado arriva nelle sale italiane dal 18 ottobre con 01 Distribution in oltre 400 copie, dopo essere già uscito a fine giugno negli USA dove si è subito posizionato tra i primi posti al box office, incassando circa 50 milioni di dollari (altri 26 li ha guadagnati nelle ulteriori uscite estere).
Soldado è il suo debutto ufficiale a Hollywood. Cosa vuol dire per un regista europeo girare negli USA?
Affrontare l’avventura di Hollywood è naturalmente estremante interessante, ma anche un po’ delicato. Il sistema di finanziamento è completamente diverso, ci sono moltissimi interlocutori e il regista non ha il controllo del progetto fino alla fine, come avviene, invece, in Europa. Per questo può essere facile perdere la propria specificità, che è poi, paradossalmente, il motivo per cui si viene coinvolti in un progetto. Era il mio più grande timore, ma guardando il risultato finale sono felice che la mia cifra stilistica sia rimasta riconoscibile.
L’aspetto migliore dell’esperienza americana?
Una cosa molto bella del cinema americano è che a un certo punto realizzi che l’unico limite è nella tua mente. È possibile realizzare ogni scena nel modo in cui si desidera, i mezzi tecnici sono virtualmente infiniti, è come avere tutti i giocattoli a disposizione, e questo, lascia un certo senso di libertà. Con quegli strumenti, poi, ho fatto cose che un americano non avrebbero mai pensato, come il piano sequenza dell’esplosione nel supermercato che dura due minuti.
La geografia del luogo ha influenzato il suo modo di girare?
Mentre giravo nel deserto mi sono accorto che gli spazi, senza volerlo, hanno modificato il mio stile e il mio approccio alla regia. Ho iniziato a girare con lenti larghe e telecamera fissa, cose che solitamente non faccio: il deserto è un orizzonte così ampio che influenza la grammatica e il modo di girare.
Qual è la specificità del cinema d’autore italiano rispetto a quello americano?
Nello sguardo amorale nel racconto che riesce a tracciare la rappresentazione di un mondo vero, reale, fatto senza alcuna timidezza, dove tutto può succedere. Il mio è un tipo di cinema diretto, dove non c’è un compasso morale che guida o rassicura durante il racconto, in cui tutto viene mostrato, e anche, a volte, buttato in faccia allo spettatore. Nel film precedente, ad esempio, i personaggi erano filtrati dallo sguardo dell’agente dell’FBI interpretata da Emily Blunt, che impersonava la legge. Uno sguardo morale, per certi versi, anche consolatorio, perché traccia una linea di confine netta tra ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Soldado prosegue il percorso tracciato dai suoi film precedenti – A.C.A.B., Suburra, o Gomorra- La serie – dove una linea sottilissima separa poliziotti e criminali, bene e male.
Ho iniziato la mia carriera nel giornalismo come cameraman, e ho imparato che la verità non esiste, e anche dove c’è riportarla è un compito delicato: non puoi mai intervenire nel racconto, non puoi esprimere il tuo giudizio morale. Nelle vicende umane ci sono, poi, cose ricorrenti, come sottilissimo confine che c’è tra il bene e il male. A volte per perseguire il bene, ci si può trovare nella condizione di fare il male.
Come si è rapportato al primo capitolo, Sicario, diretto da Denis Villeneuve e presentato in concorso al Festival di Cannes 2015?
Soldado è un’altra cosa rispetto a Sicario, un film che, tra l’altro, a me è piaciuto molto, un progetto d’autore di altissimo livello. La visione illuminata dei produttori non era quella di farne un sequel, ma di continuare a raccontare quel mondo criminale da un altro punto di vista. L’unico punto di contatto tra i due film è l’universo narrativo che condividono.
Sarebbe disposto a firmare anche il terzo capitolo della trilogia?
No. L’aspetto che mi ha intrigato del progetto è proprio non provare a fare due volte lo stesso film, ma avere un regista che fa un suo film, con uno sguardo completamente diverso sullo stesso mondo raccontato. Se io lo rifacessi sarebbe a questo punto un vero sequel, qualcosa che per me non ha senso.
Com’è stato lavorare con due star internazionali come Benicio Del Toro e Josh Brolin?
È stato difficile gestire il fan che è in me. Li guardavo con sincera ammirazione e al tempo stesso gli davo indicazioni. Sono due grandissimi professionisti, due lavoratori incredibili, molto diversi dall’idea di star hollywoodiana capricciosa che si potrebbe avere.
Il film pone l’accento sul fatto che il vero grande affare dei cartelli messicani è diventato l’immigrazione clandestina. Un tema di forte attualità anche in Italia.
È una delle cose che più mi avevano interessato del copione, la possibilità di raccontare parte del mondo che è anche la rappresentazione di un bisogno universale. Persone che cercano di muoversi per cambiare vita, alla ricerca di un futuro migliore, com’è sempre successo da quando esiste l’uomo, che nell’antichità si spostava alla ricerca dell’acqua, oggi di una condizione economica migliore.
Finora i risultati del box office italiano nelle sale sono stati alquanto deludenti. Lei come si inserisce nell’acceso dibattito in corso tra sala e nuove forme distributive online?
Il cinema è cinema, e va visto al cinema. In Italia, però, c’è al momento una difficoltà oggettiva con le sale. In America il film ha fatto 50 milioni, nonostante fosse una pellicola indipendente e vietata ai minori. Negli USA la gente va al cinema perché ci sono sale in cui entrare è un evento di per sé, e gli spettatori ci vanno per provare un’esperienza che è qualcosa di completamente diverso. Se qui lo spettatore va in una sala che è più o meno come il suo salotto di casa, è chiaro che la cosa non può funzionare.
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