Parlando di finanziamenti e di crisi del cinema italiano, prima di tutto bisogna fare una premessa. Secondo me, oggi, in questo clima di attacchi continuati a qualsiasi forma di sostegno economico pubblico alla cultura, è importante ribadire che i finanziamenti di questo tipo costituiscono una misura giusta e civile che ogni Paese ha diritto di adottare per garantire la sopravvivenza della propria creatività nazionale. Infatti il finanziamento pubblico al cinema esiste in tutta Europa, anzi in tutto il mondo. Solo gli Stati Uniti non ne hanno bisogno, grazie alla loro egemonia nell’economia globale e alle dimensioni del loro mercato interno, che consente ai produttori di ammortizzare abbastanza presto l’investimento iniziale di un film.
I mercati interni europei sono troppo ridotti perché questo possa accadere, e tutta l’Europa è linguisticamente e culturalmente troppo frammentata. Se il finanziamento pubblico al cinema dovesse essere soppresso, in Italia come in tutta Europa, per le nostre cinematografie nazionali equivarrebbe a una condanna a morte.
Detto questo, però, mi sento di poter muovere delle critiche alle modalità che regolano oggi il finanziamento pubblico al cinema italiano dal punto di vista legislativo. Infatti, un film che esce oggi sul mercato deve essere in grado di vincere nel mercato stesso, affermandosi anche oltre confine. Perché questo sia possibile, una produzione deve destinare una quota sempre crescente del bilancio di un film al marketing, alla pubblicità e allo sviluppo, aspetti che oggi in molti casi vengono completamente trascurati. E perché un produttore possa mettere in piedi e mantenere una struttura che consenta di far vivere il film in un mercato completo e difficile, questa struttura dovrebbe essere legata a un progetto economico-culturale.
Non bisognerebbe finanziare il singolo film, quanto un pacchetto di film appartenenti a uno stesso filone, legati da medesima cifra, forse stile, ma anche da una strategia economica d’impresa comune. E non è vero che questo favorirebbe i grandi produttori rispetto ai piccoli, perché oggi di piccoli produttori c’è solo moria; anzi, consentirebbe di valorizzare la professionalità, a scapito di chi si improvvisa produttore di un solo film, con una società messa su quasi per caso a questo scopo. Parlare di pacchetto, poi, non significa necessariamente confinarsi al cinema di genere a danno del cinema d’autore, perché anche il cinema d’autore ha un suo mercato.
La seconda critica che vorrei fare alla legislazione sul finanziamento pubblico così com’è ora è che, allo stato attuale delle cose, i progetti che arrivano alla Commissione sono spesso immaturi: i registi e i produttori, ormai con l’acqua alla gola, non hanno il tempo di riscrivere le loro sceneggiature da cima a fondo, o di predisporre un piano finanziario di una qualche consistenza ed entità. Quello che succede con la legislazione attuale è che un’idea o viene bocciata perché immatura, o, pur essendo immatura, viene accettata e promossa senza ulteriore revisione. Mentre bisognerebbe poter mettere i progetti validi ma ancora precoci in un’incubatrice, assegnando loro soldi da trasformare in tempo per arrivare a maturazione. Ciò faciliterebbe soprattutto i registi esordienti, che spesso realizzano pellicole deboli e proprio per questo non arrivano mai a fare il secondo film. Rientriamo nella logica del progetto economico culturale: non ha senso fare film che nascono e muoiono in pochi giorni come le farfalle.
(Intervento raccolto da Laura Pugno)
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